Ho Urlato per un Tappeto, Poi Ho Capito Chi Mi Stava Curando Davvero

Renata ha sospirato, come se quel discorso fosse troppo grande per la sua mattina. Io mi sono alzato.

«Vieni con me oggi pomeriggio.»

«Dove?»

«In giro. A Verona. Non da turista. Da… proprietaria di una parte di questa vita.»

Lei ha riso, incredula.

«Io? A fare la signora in centro?»

«Sì. E dopo passiamo in un negozio di casalinghi e scegli tu una cosa per la cucina. Una cosa che *ti serve*, non che “non dà fastidio”.»

Renata mi ha guardato come si guarda un figlio che ha preso una decisione strana, ma che finalmente sembra… presente.

«Va bene», ha detto. «Però niente cose inutili.»

«Te lo prometto. Solo cose inutili quanto un tappeto persiano», ho risposto.

Lei mi ha lanciato uno sguardo finto severo.

«Non scherzare su quello. Sei ancora in debito.»

«Lo so», ho detto. «E pago con interessi.»

Nel pomeriggio la nebbia era meno fitta, ma Verona restava ovattata, come se la città stessa parlasse sottovoce. Siamo usciti e, per la prima volta da quando era arrivata, Renata non camminava dietro di me. Camminava accanto. Piano, ma accanto.

Le ho mostrato Piazza delle Erbe, ma non come “guida”: le ho chiesto di raccontarmi lei, cosa vedeva. Renata indicava i banchi della frutta, i profumi, le persone.

«Questa mi ricorda tua zia Ada», ha detto, indicando una donna che contrattava sul prezzo dei radicchi con una convinzione quasi poetica.

«Tua zia Ada faceva paura anche ai venditori?»

«Tua zia Ada faceva paura al mondo», ha risposto, e ha riso davvero. Una risata piena, che non sentivo da anni.

Abbiamo preso un caffè in un bar piccolo, con due tavolini vicini e l’odore di brioche. Renata ha insistito per pagare lei.

«No, mamma, pago io.»

«Hai quarantadue anni, Dario. Lasciami pagare un caffè. Non ti rovina il bilancio.»

Le ho ceduto, e mi sono accorto che anche quello era un gesto: darle la dignità di non essere sempre “quella che riceve”.

Poi siamo entrati nel negozio di casalinghi. Io mi aspettavo un mestolo, un canovaccio. Renata si è fermata davanti a una teiera semplice, bianca, con un beccuccio un po’ storto, non perfetta.

«Questa», ha detto.

«È… molto normale.»

«Appunto. È una teiera. Serve per fare il tè. Non per fare scena.»

Io l’ho guardata e ho capito: non stava scegliendo un oggetto. Stava scegliendo un diritto.

«Prendiamola», ho detto. «E prendiamo anche due tazze che non si sbeccano subito.»

Renata mi ha guardato con finta diffidenza.

«E se le rompo?»

Ho deglutito. Poi ho risposto, con voce più ferma.

«Allora le rompi. E io non urlo.»

Ha abbassato lo sguardo, come il giorno prima, ma stavolta non per mortificazione. Perché si stava trattenendo dal piangere.

Quella sera abbiamo usato la teiera nuova. Renata aveva messo la tovaglia che io non volevo mai “perché stona”. Era una tovaglia a fiori, un po’ fuori dal mio minimalismo. Eppure, improvvisamente, la cucina sembrava… vera.

Mentre versava il decotto, Renata ha detto:

«Sai cosa mi manca davvero della casa sul lago?»

«Cosa?»

«Il rumore. Di notte sentivo i grilli, il vento, i rami. Qui sento solo… i tuoi passi e i tuoi sospiri.»

Ho abbassato lo sguardo.

«Ti prometto che troveremo un rumore che ti faccia compagnia.»

Lei ha sorriso.

«E quale sarebbe?»

Ho indicato la teiera.

«Questo. E magari… la radio al mattino. Se ti va. Anche se “stona”.»

Renata si è seduta, sorpresa.

«Tu che ascolti la radio?»

«Io che provo a vivere», ho detto.

Il giorno dopo, senza farmi troppi discorsi, ho preso il telefono e ho chiamato il cliente della cantina. Gli ho detto che avevo bisogno di spostare una riunione. La vecchia versione di me avrebbe tremato. Questa nuova versione… tremava lo stesso, ma lo faceva per una ragione diversa: stavo scegliendo.

Nel pomeriggio ho trovato Renata con un quaderno in mano. Scriveva una lista: cose da comprare, forse. O cose da ricordare. Mi sono avvicinato.

«Che fai?»

Lei ha chiuso il quaderno di scatto.

«Niente.»

«Mamma.»

Ha sospirato e me l’ha mostrato. Era una lista di ricette. E accanto, un’altra lista: “cose da fare al lago”. Piccole manutenzioni, giardino, controllare le persiane.

Ho sentito un colpo al petto.

«Stai pensando di tornare là?»

Renata ha stretto le labbra.

«Non lo so. Qui… qui mi vuoi bene. Ma io là… là mi sento me stessa.»

Ho annuito. Per un attimo ho avuto paura di perderla. Poi ho capito che l’amore non è tenere qualcuno vicino. È permettergli di respirare.

«Allora facciamo così», ho detto. «Questo weekend andiamo al lago insieme. Non per “decidere”. Solo per rivederla. E io… io guardo la casa con occhi diversi. Magari si può sistemare senza che tu resti sola. Magari…»

Renata mi ha guardato, cauta.

«Magari cosa?»

Ho sorridiso.

«Magari ci facciamo un accordo. Tu non sei un mobile da spostare. E io non sono un bambino che si lascia curare e poi urla. Troviamo una via di mezzo. Una vita che non ti faccia sentire ospite e non mi faccia sentire padrone.»

Renata mi ha osservato a lungo. Poi ha detto una cosa semplice, che mi ha tagliato le gambe.

«Tuo padre avrebbe detto: “non parlare, fai”.»

«Lo so», ho risposto. «E infatti… domani compro le tende per la tua stanza. Quelle che vuoi tu. Anche se sono a fiori.»

Renata ha riso, una risata breve ma luminosa.

«Allora sei serio.»

«Serissimo.»

Quella notte, prima di andare a letto, sono passato in salotto. La macchia sul tappeto era ancora lì. Scura, irregolare, come una ferita che non si chiude. Ho pensato che avrei potuto farla pulire da qualcuno, pagare, cancellare. Ma mi è venuta in mente la sua mano sui miei capelli, il suo “due cucchiai colmi”, il modo in cui mi aveva perdonato senza farmi pagare.

Ho spento la luce e ho lasciato che il tappeto restasse com’era. Perché alcune macchie non sono una vergogna. Sono una promessa.

La promessa che, la prossima volta che la vita mi farà perdere la testa, io mi ricorderò chi sta dall’altra parte della mia voce. E abbasserò il tono. Non per educazione. Per amore.

Scroll to Top