53 motociclisti si presentarono al funerale di un veterano senzatetto quando i figli rifiutarono il suo corpo
“Non è venuto nessuno a reclamare il corpo.”
Quelle parole rimasero incollate nella testa di Tommaso Rizzi, direttore di un’agenzia funebre a Bologna, mentre fissava la cartellina color avana sulla scrivania. Dentro c’era tutto ciò che si sapeva di Giuseppe “Pino” Rinaldi, 68 anni, ex militare dell’Esercito, morto in silenzio in un dormitorio per persone senza casa. Nessun parente si era fatto vivo. Nessun amico. Nessuno.
Tommaso aveva fatto le telefonate di prassi ai familiari indicati: due figli ormai adulti. Entrambi, però, si erano tirati indietro.
“Non lo vediamo da anni,” aveva detto il figlio, secco, prima di chiudere la chiamata.
La figlia, invece, non aveva mai risposto. Né quella volta, né le successive.
Per legge, Tommaso avrebbe potuto autorizzare una cremazione essenziale, a carico dello Stato. Sarebbe stata una cosa rapida, pratica, quasi invisibile: un altro addio senza pubblico, come succede a troppi.
Ma qualcosa, in quella cartellina, lo fece fermare.
Tra i fogli c’era una foto sbiadita: un ragazzo in divisa, dritto, con lo sguardo fiero. Tommaso sentì un peso nello stomaco. Pensò che un uomo che aveva indossato quell’uniforme meritasse almeno una mano sulla spalla, anche solo alla fine.
Quella sera, a serranda abbassata, Tommaso scrisse un breve messaggio sui social, su una pagina locale:
“Questa settimana daremo l’ultimo saluto a un veterano che non ha familiari presenti. Si chiamava Giuseppe Rinaldi. La cerimonia sarà venerdì mattina. Nessuno dovrebbe essere sepolto da solo.”
Non si aspettava granché. Forse un vicino di quartiere, forse un paio di ex militari in pensione. Invece, la mattina dopo, il telefono cominciò a vibrare senza sosta.
Messaggi da tutta l’Emilia-Romagna. Gruppi di ex servitori dello Stato, persone comuni, e soprattutto motociclisti che chiedevano ora e luogo.
Tra i messaggi ce n’era uno di Marco Donati, capogruppo di un club motociclistico dal nome semplice e non ufficiale: “Riders dell’Onore”.
Quando lesse quel post, Marco mandò una sola frase ai suoi:
“Un soldato sta tornando a casa da solo. Cambiamo le cose.”
Due giorni dopo, il piccolo funerale che Tommaso aveva immaginato stava diventando qualcosa di completamente diverso.
Il venerdì mattina, Bologna era tagliata da un freddo secco. E poi, in lontananza, arrivò un suono che non si poteva confondere: motori. Uno, due, dieci… decine.
Le moto comparvero in fila, ordinata, con bandiere tricolori che sventolavano dietro. La gente affacciata alle finestre guardava sorpresa, chiedendosi chi fosse morto per meritare quella presenza.
Al cancello del cimitero, cinquantatré motociclisti si disposero accanto al carro funebre.
Spensi i motori.
Caschi tra le mani.
E una mano, molti di loro, la portarono al petto.
Quando la bara, coperta con il tricolore, fu portata fuori, Tommaso capì una cosa che non avrebbe mai dimenticato:
Giuseppe Rinaldi non sarebbe stato sepolto da solo.
Il vento di dicembre pizzicava la faccia. L’erba aveva una patina di brina e, nel silenzio del mattino, si sentiva solo il rumore delle scarpe sul ghiaccio sottile.
Tommaso osservava da qualche passo più indietro, con gli occhi lucidi. Non aveva mai visto niente di simile: così tanta gente presente per un uomo che, fino a quel post, non conosceva nessuno.
Poi un uomo, con una tromba, si mise in posizione. E partì “Il Silenzio”.
Le note sembrarono fermare l’aria. Anche gli uccelli, per un attimo, parvero zittirsi. I motociclisti restarono immobili, dritti, come in un saluto finale.
Tra loro c’era Laura Gatti, ex militare in pensione. Aveva guidato per quasi tre ore da fuori città. Quando l’ultima nota svanì, si avvicinò e poggiò sulla bara una piastrina metallica. Sussurrò piano:
“È uno di noi.”
Dopo la sepoltura, molti rimasero ancora lì. Volevano sapere chi fosse stato davvero quell’uomo.
Tommaso raccontò ciò che sapeva: che Giuseppe aveva servito tra il 1974 e il 1978, era stato di stanza all’estero per un periodo, poi era tornato e aveva lavorato nell’edilizia. Che, a un certo punto, la vita gli si era girata contro.
Dai registri pubblici emerse altro: aveva sofferto di disturbo post-traumatico da stress, aveva perso lavoro e matrimonio, e infine la casa. L’alcol, all’inizio, era stato un anestetico. Poi era diventato una prigione.
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