I nipoti preferivano i regali dell’altra nonna, così ho dato le dimissioni per insegnare loro il rispetto

IL SILENZIO HA UN SUONO STRANO (QUANDO NON LO SENTI DA OTTO ANNI)

Sono le 9:15 del mattino. Sono ancora in pigiama.

Di solito, a quest’ora, avrei già combattuto la Terza Guerra Mondiale per far lavare i denti a Ginevra. Avrei già caricato due lavatrici e steso i panni sul balcone prima che piova.

Sarei già in coda alla posta per pagare le bollette di mia figlia (“Mamma, tu hai tempo, vero?”).

Invece, sono seduta al mio piccolo tavolo di formica in cucina. Davanti a me c’è una tazza di caffè fumante, nero e bollente. Accanto, c’è il resto di quella crostata alla marmellata di albicocche che ieri nessuno ha voluto mangiare.

Ne taglio una fetta enorme. La mangio con le mani, lasciando cadere le briciole sul pavimento. Per la prima volta in un decennio, non mi alzo subito per spazzare.

Le briciole restano lì. È una piccola ribellione, lo so. Ma guardare quelle briciole a terra mi dà una soddisfazione perversa che non provavo da anni.

Il mio telefono è sul tavolo. Lo schermo si illumina ogni tre minuti. Serena (12 chiamate perse) Genero (5 chiamate perse) Fisso Casa Serena (3 chiamate perse)

L’ho messo in modalità “Non disturbare”. Una funzione che mio nipote Edoardo mi aveva insegnato mesi fa, ridendo della mia incapacità tecnologica.

Non sapeva che un giorno l’avrei usata contro di loro come un’arma di difesa di massa. Sorseggio il caffè. È buono. Ha il sapore della libertà, ma ha anche un retrogusto amaro: quello del senso di colpa.

Noi mamme italiane siamo programmate geneticamente per soffrire. Se non ci sacrifichiamo, ci sentiamo inutili. Una voce nella mia testa mi dice: “Sei una donna orribile. I tuoi nipoti staranno piangendo. Serena perderà il lavoro. È questo che vuoi?”

Ma poi guardo le mie mani. La pelle è secca, le nocche un po’ gonfie per l’artrite.

Mi tornano in mente le parole di ieri sera. “La Nonna della Routine”. “Tu sei sempre stanca”.

No. Questa volta, la voce del senso di colpa deve tacere. Ho preso il telecomando e ho acceso la TV. Non sui cartoni animati. Non su Melevisione o Peppa Pig.

Ho messo su un programma di cucina. Sono rimasta lì, ipnotizzata, per due ore. Nessuno mi ha chiesto dov’erano i calzini. Nessuno mi ha urlato che voleva l’iPad.

Verso le 11:30, il citofono ha suonato.

Sapevo chi era. Il mio appartamento è a soli quindici minuti di macchina dal loro attico di design. Quello che pagano anche grazie al fatto che non pagano me.

Ho aspettato. Ha suonato di nuovo. Lungo, insistente. Mi sono alzata, ho stretto la vestaglia e ho risposto.

“Chi è?”

“Mamma! Apri! Sono io!”

La voce di Serena era stridula, sull’orlo dell’isteria.

“Sto riposando, Serena. Ti avevo detto che oggi ero in ferie.”

“Mamma, per favore! È un’emergenza! Ludovica se n’è andata!”

Ho sentito un sorriso stirarmi le labbra. Non avrei dovuto, ma Dio, quanto è stato dolce.

“Già andata? Pensavo si fermasse per godersi i nipoti.”

“Mamma, apri questo maledetto portone!”

Ho premuto il pulsante.

Quando Serena è entrata in cucina, sembrava fosse passata attraverso un uragano. Aveva i capelli spettinati e una macchia di caffè sulla camicetta di seta. Il trucco era colato sotto gli occhi.

Si è lasciata cadere sulla sedia, guardando con orrore la mia cucina tranquilla e la crostata mangiata a metà.

“Come hai potuto?” ha sibilato.

“Vuoi del caffè? È ancora caldo.”

“Non voglio il caffè! Voglio sapere cosa ti è preso!”

Ha preso fiato, tremando.

“Sai cosa è successo stamattina? Un inferno. Edoardo non trovava il quaderno di italiano. Ginevra ha rovesciato il latte sui pantaloni del papà cinque minuti prima che dovesse uscire.”

Si è passata una mano nei capelli.

“E io… io ho dovuto chiamare in ufficio e dire che arrivavo tardi. Il mio capo mi ha urlato contro!”

Ho continuato a bere il mio caffè, calma.

“E la ‘Nonna Divertente’? Ludovica non era lì?”

Serena si è coperta il viso con le mani.

“Ludovica…” ha quasi singhiozzato.

“Ludovica si è svegliata alle 10. È uscita dalla camera degli ospiti in vestaglia di seta. Ha visto il caos in cucina e ha chiesto se avevamo del latte di mandorla.”

“Latte di mandorla?” ho chiesto ironica.

“Sì, perché il latte vaccino la gonfia. Quando Ginevra ha iniziato a piangere perché non riusciva ad allacciarsi le scarpe, sai cosa ha fatto?”

Ho scosso la testa.

“Le ha detto: ‘Tesoro, non urlare, mi fai venire l’emicrania’. Poi si è vestita e ha detto che aveva un appuntamento dall’estetista.”

Serena ha alzato lo sguardo, disperata.

“Ha detto che ‘noi eravamo troppo stressati per i suoi gusti’. Se n’è andata, mamma. Ci ha lasciato lì.”

Ho annuito. Non ero sorpresa. Ludovica è fatta per gli aperitivi e le foto su Instagram, non per la trincea della vita quotidiana.

“Mi dispiace, Serena,” ho detto, mentendo solo a metà.

“Ma vedi, questo è esattamente quello che cercavo di spiegarti ieri. Essere nonni non è solo fare regali costosi. È esserci quando è difficile.”

Serena si è alzata di scatto.

“Sì, va bene, ho capito la lezione!” ha gridato.

“Hai vinto, ok? Sei contenta? Ora per favore, vestiti e vieni a casa.”

Ha guardato l’orologio compulsivamente.

“I bambini sono a scuola, ma devo andarli a prendere alle 16:30 e ho una call con New York. E la casa è un disastro.”

L’ho guardata a lungo. Era mia figlia. L’ho cresciuta con amore.

Le ho pagato l’università facendo i doppi turni in fabbrica quando suo padre è morto. L’ho vista diventare una donna in carriera. Ma in quel momento, non ho visto rispetto nei suoi occhi. Ho visto solo panico logistico.

Lei non voleva la sua mamma. Voleva il suo elettrodomestico. Voleva che la lavastoviglie ricominciasse a funzionare.

“No,” ho detto piano.

Serena si è bloccata come se avesse sbattuto contro un muro invisibile.

“Come… no?”

“No, Serena. Non vengo.”

“Ma ti ho appena chiesto scusa!”

“No, non mi hai chiesto scusa. Mi hai detto ‘Hai vinto’.”

Mi sono alzata e ho portato la tazza nel lavandino.

“È diverso, Serena. Pensi che questo sia un gioco di potere. Pensi che io stia facendo i capricci per farmi pregare. Non hai capito niente.”

Mi sono girata verso di lei.

“Sono stanca. Ho 64 anni e la schiena a pezzi. Per otto anni sono stata la vostra rete di sicurezza, il vostro paracadute.”

Ho indicato la porta.

“E ieri, quando ho chiesto un minimo di riconoscimento, mi avete riso in faccia. Mi avete detto che sono noiosa. Che sono sostituibile con un iPad.”

“Erano solo bambini, mamma!”

“E tu? Tu sei una bambina? E tuo marito? Avete riso anche voi.”

La mia voce ha tremato leggermente, ma ho tenuto duro.

“Avete permesso che mi umiliassero. Quindi no. Oggi non vengo. E nemmeno domani.”

Serena mi ha guardato come se fossi un’aliena. I suoi occhi si sono riempiti di lacrime, ma questa volta erano lacrime di rabbia vera.

“Bene,” ha detto freddamente.

“Se vuoi fare la guerra, facciamola. Arrangiati con la tua pensione da fame. Non aspettarti che ti chiamiamo per il pranzo della domenica.”

“Non mi aspetto niente, Serena. Chiudi la porta quando esci.”

Se n’è andata sbattendo la porta così forte che i piatti nella credenza hanno tremato.

Mi sono seduta di nuovo. Il silenzio è tornato, ma ora era pesante, carico di piombo. Ho pianto. Certo che ho pianto. Ho pianto per un’ora, con la testa tra le mani, sentendomi la madre peggiore del mondo.

Ma non l’ho richiamata.

I giorni successivi sono stati surreali. Ho scoperto che le giornate sono lunghissime quando non devi correre.

Martedì sono andata al mercato rionale. Non ho comprato le verdure per il minestrone dei bambini (Edoardo odia le zucchine, ma io gliele nascondo nel passato, Ginevra vuole solo le carote).

Ho comprato dei fiori per il mio balcone. E del pesce spada per me.

Costava caro, ma ho pensato: “Ho risparmiato otto anni di regali di Natale per Ludovica, posso permettermelo.” Mercoledì ho incontrato una vecchia amica, Marisa. Non la vedevo da mesi perché “non avevo tempo”.

Siamo andate a fare una passeggiata al parco.

“Ti trovo bene,” mi ha detto Marisa. “Hai un’aria… diversa. Meno trafelata.”

“Ho dato le dimissioni,” le ho detto, ridendo.

Le ho raccontato tutto. Marisa mi ha ascoltato a bocca aperta.

“Brava,” mi ha detto, stringendomi la mano.

“Io non ci sarei riuscita. Ma hai fatto bene. I figli di oggi pensano che tutto sia dovuto. Noi eravamo grate se i nostri genitori ci tenevano i figli un’ora. Loro pretendono la vita intera.”

Giovedì sera, il mio telefono ha squillato. Era il numero di casa di Serena. Ma ho capito subito che non era lei.

Ho risposto.

“Pronto?”

“Nonna…”

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