La voce era piccola, tremolante. Era Edoardo. Il mio cuore ha fatto un salto nel petto.
“Amore di nonna… dimmi. Che succede?”
“Ho mal di pancia.”
“Hai mangiato troppe schifezze?”
“Sì… Papà ci ha portato al McDonald’s due sere di fila. E poi abbiamo ordinato la pizza.”
Lo sentivo tirare su col naso.
“Mamma non sa cucinare il riso in bianco, dice che viene colla. Mi fa male la pancia, nonna. E ho perso il livello a Minecraft.”
Ho sorriso, con gli occhi lucidi. Povero piccolo.
“Mi dispiace per la pancia, amore. Fatti fare una camomilla.”
“Mamma non trova la camomilla. Dice che l’hai nascosta tu.”
“È nel ripiano in alto, dietro il barattolo del caffè. Sta lì da cinque anni, Edoardo.”
C’è stato un attimo di silenzio dall’altra parte del filo.
“Nonna… quando torni?”
La sua voce si è abbassata, come se avesse paura di farsi sentire.
“La casa è triste. E puzza di chiuso. Mamma urla sempre.”
Stavo per cedere. Stavo per dire: “Arrivo subito, metto le scarpe e arrivo”. Il mio istinto di “Nonna del Minestrone” urlava di correre a salvarli. Ma mi sono morsa la lingua.
Se fossi tornata ora, nulla sarebbe cambiato. Sarei tornata a essere la serva.
“Non lo so, Edoardo. La nonna ha bisogno di riposare un po’. Passami la mamma, per favore.”
Ho sentito dei fruscii, poi la voce stanca di Serena. Non era più arrabbiata. Era sconfitta.
“Mamma?”
“Ciao Serena. Edoardo dice che ha mal di pancia.”
“Sì. Ha vomitato tutta la notte. E Ginevra ha la febbre a 38.”
Ha fatto una pausa lunga. Sentivo il suo respiro pesante.
“Io… io ho esaurito i giorni di permesso al lavoro. Marco è in trasferta. Non so cosa fare.”
La sua voce si è rotta. Ha iniziato a piangere. Non il pianto isterico di lunedì. Era un pianto di stanchezza, di paura. Il pianto di chi si rende conto di non farcela da sola.
“Ho chiamato Ludovica,” ha ammesso Serena tra i singhiozzi.
“Ah sì?”
“Sì. Le ho chiesto se poteva venire a stare con i bambini malati mentre io andavo in riunione. Sai cosa mi ha risposto?”
“Cosa?”
“Che i bambini malati portano germi e lei deve partire per le Maldive tra una settimana. Non può rischiare di ammalarsi.”
Ho stretto il telefono. Tipico.
“Ha detto: ‘Prendi una babysitter, tesoro, ti faccio un bonifico’.”
Ho sentito il dolore nella voce di mia figlia. Il dolore di capire che i soldi non comprano l’affetto. Che l’iPad non ti tiene la fronte quando vomiti.
“Mamma…” ha sussurrato Serena.
“Ho sbagliato. Ho sbagliato tutto.”
“Non lo dici solo perché sei nei guai?” ho chiesto, severa.
“No. Cioè, sì, sono nei guai, ma… ho capito quanto sei preziosa.”
Ha tirato su col naso.
“Ieri sera sono tornata a casa tardi. La casa era fredda, c’erano i piatti sporchi ovunque, i bambini litigavano… e ho capito.”
“Cosa hai capito?”
“Che quella che io chiamavo ‘routine’ o ‘noia’, in realtà era… era cura. Era amore. Tu rendevi la nostra vita possibile, e noi ti abbiamo trattata come un mobile vecchio.”
Ho chiuso gli occhi, lasciando scendere una lacrima lungo la guancia. Era quello che aspettavo. Non le scuse per il disagio. Le scuse per la mancanza di valore.
“Mi dispiace di averti chiamata ‘Nonna della Routine’ come se fosse un insulto,” ha continuato.
“Vorrei solo che tornassi. Non per fare la colf. Ma perché mi manchi. E manchi ai bambini.”
Ha fatto una piccola risata triste.
“Edoardo ha chiesto la tua crostata tre volte oggi. Ha provato a giocarci sull’iPad a un gioco di cucina, ma ha detto che non profuma.”
Ho fatto un respiro profondo. Ho guardato la mia cucina vuota e pulita. Era bella, ma era anche solitaria.
“Va bene, Serena.”
“Davvero? Grazie, grazie mamma! Vieni domani alle 7?”
“Aspetta. Non ho finito.”
Il mio tono è cambiato. È diventato quello che usavo quando lavoravo come caporeparto in fabbrica trent’anni fa.
“Torno, ma le cose cambiano. Da domani ci saranno nuove regole. Le Mie Regole.”
“Tutto quello che vuoi, mamma.”
“Primo: Io arrivo alle 8:00, non alle 6:45. Voi vi alzate e fate colazione con i vostri figli. Io non sono la sveglia.”
“Ok, va bene. Lo faremo.”
“Secondo: Non farò più le pulizie pesanti. Pavimenti, bagni, vetri… chiamate una ditta o usate i soldi di Ludovica. Io mi occupo dei nipoti, non della casa.”
“D’accordo. Chiamo l’impresa domani.”
“Terzo: Il venerdì pomeriggio sono libera. Mi sono iscritta a un corso di pittura con Marisa. Inizia alle 15:00. Dovrete organizzarvi.”
“Venerdì? Ma io ho le riunioni di budget…”
“Organizzatevi. O chiedete a Ludovica. Sono sicura che tra un trattamento e l’altro troverà un’ora.”
Serena ha fatto una piccola risata nervosa.
“Ricevuto. Venerdì libero.”
“E quarto… e questo è il più importante.”
“Dimmi.”
“Voglio che diciate ai bambini, davanti a me, che gli iPad sono divertenti, ma che la nonna vale più di un oggetto.”
Ho fatto una pausa per dare peso alle parole.
“Voglio rispetto, Serena. Non voglio essere data per scontata mai più. L’amore è gratuito, il servizio no.”
“Te lo prometto, mamma. Te lo giuro.”
Il mattino dopo, sono arrivata alle 8:00 in punto.
Ho suonato il campanello. Non ho usato la chiave, anche se ce l’ho sempre nella borsa. Volevo che venissero ad aprirmi. Come si fa con un ospite gradito.
Ha aperto Edoardo. Era pallido, in pigiama, con le occhiaie scure sotto gli occhi. Quando mi ha vista, non ha chiesto regali. Non ha guardato se avevo borse o pacchetti.
Mi si è buttato addosso, abbracciandomi le gambe così forte che quasi perdevo l’equilibrio.
“Nonna!” ha gridato, affondando la faccia nel mio cappotto. “Nonna Minestrone!”
Dietro di lui c’era Serena. Mi guardava con gratitudine, e forse con un po’ di timore reverenziale.
“Ciao mamma,” ha detto.
“Ciao,” ho risposto, accarezzando la testa di Edoardo.
Sono entrata. La casa era un campo di battaglia, ma non mi sono precipitata a raccogliere i giocattoli. Mi sono tolta il cappotto con calma. L’ho appeso.
“Allora,” ho detto a voce alta.
“Chi vuole una minestrina calda per il mal di pancia e chi vuole imparare a fare la pasta frolla? Ho portato la farina.”
Ginevra è corsa giù dalle scale, ancora con i capelli arruffati.
“Io! Io voglio fare la pasta!”
Mentre impastavo con i bambini, ho visto Serena con la coda dell’occhio. Stava caricando la lavastoviglie da sola, in silenzio.
Ogni tanto ci guardava e sorrideva.
Sull’isola della cucina c’erano i due iPad di Ludovica. Erano spenti. C’era un sottile strato di polvere sugli schermi neri.
Ludovica tornerà, ne sono sicura. Tornerà a Natale, abbronzata e carica di regali costosi. E i bambini saranno felici di vederla, perché è normale. Lei è il luna park.
Ma io? Io sono la casa. Io sono le fondamenta.
E da oggi, tutti in questa famiglia sanno che se togli le fondamenta, anche l’attico più bello crolla. Mentre stendevo la pasta col mattarello, Edoardo mi ha guardato.
“Nonna, sai una cosa?”
“Cosa, amore?”
“Il gioco dell’iPad è bello… ma quando vinci non ti abbraccia nessuno.”
Ho sorriso, baciandogli la fronte che scottava ancora un po’.
“Esatto, Edoardo. Esatto.”
Sono tornata al mio posto. Ma non sono più la stessa. E nemmeno loro. A volte bisogna andare via per farsi vedere davvero.






