Il bambino che offrì venti euro agli “Angeli della Strada” perché fossero suo padre alla Giornata dei Mestieri
Contammo una, due, tre… fino a venti banconote stropicciate che quel bambino spingeva attraverso la grata del nostro deposito, pregandoci di fingere che uno di noi fosse suo padre morto.
La Giornata dei Mestieri era il giorno dopo. Ogni alunno doveva portare il proprio papà a scuola.
Ma il padre di Matteo, nove anni, era morto in Afghanistan tre anni prima. La maestra aveva detto: niente eccezioni. Porta tuo padre o prendi zero.
Così quel bambino aveva camminato quasi sei chilometri, da solo, fino alla nostra sede alle undici e mezza di sera. Venti euro risparmiati raccogliendo bottiglie e lattine per sei mesi.
Si fermò davanti al cancello, in divisa scolastica, tremando per il freddo e per la paura, e allungò verso di noi tutti i suoi risparmi.
«Mio papà era militare,» sussurrò tra le lacrime.
«Andava in moto. Domani tutti avranno il papà con loro. Rideranno di me perché sarò l’unico senza. Per favore. Uno di voi soltanto. Fingete per un’ora. Solo un’ora.»
Quello che successe dopo non se lo aspettava nessuno. Soprattutto la preside che aveva fatto quella regola.
«Ti prego,» ripeté. «Un’ora sola. La Giornata dei Mestieri comincia alle nove.»
Mi chiamo Giorgio “Lupo” Rossi. Sessantadue anni. Ex paracadutista. Presidente dell’associazione “Angeli della Strada”: un gruppo di motociclisti volontari, quasi tutti ex militari, ex vigili del fuoco, ex forze dell’ordine. Giri di beneficenza, raccolte alimentari, accompagnamento a visite mediche per anziani che non hanno nessuno.
Ne ho viste tante, nella vita.
Ma mai una scena così.
«Ragazzo, dov’è tua madre?» chiese Marco, che tutti chiamano “Orso”, attraverso il cancello.
«Al lavoro. Fa le pulizie negli uffici di notte. Ha tre lavori diversi. Non sa che sono qui.»
«E come ci hai trovati?» chiesi io.
Matteo tirò fuori un foglio spiegazzato dal giubbotto. Era una stampa in bianco e nero dal computer: la foto del nostro deposito vista dall’alto.
«Ho cercato “motociclisti vicino alla Scuola Primaria Gianni Rodari” su una mappa online,» disse. «Voi eravate i più vicini. Solo sei chilometri.»
Sei chilometri. Questo bambino di nove anni aveva attraversato la zona più brutta della città, di notte, per arrivare da noi.
«Qualcuno avrebbe potuto farti del male,» borbottò Sandro, detto “Serpente”. «Non è un quartiere sicuro.»
«Nessuno fa più paura di arrivare domani senza papà,» rispose Matteo. «La maestra Conti ha detto che tutti devono portare il padre. Nessuna eccezione. Anche il papà di Giulia prende l’aereo dalla Germania per venire. E il papà di Michele esce dal carcere per il giorno.»
«E uno zio? Un nonno?» chiesi.
«Il nonno è in sedia a rotelle da quando ha avuto l’ictus. Lo zio Andrea ha detto che non perde una giornata di lavoro per “una sciocchezza scolastica”.»
Le mani di Matteo tremavano mentre teneva tesi i soldi.
«Venti euro. So che non è tanto. Ma li ho messi da parte per sei mesi. Vi prego. Mio papà era il Caporal Maggiore Luca Bianchi. È morto in missione vicino a Herat. Il 15 novembre 2021.»
Bianchi.
Lo guardai meglio. Occhi scuri, stessi lineamenti di tanti ragazzi che avevo visto partire troppo giovani. Non avevo mai conosciuto suo padre, ma il cognome era comune. Non importava.
«Tuo padre andava in moto?» chiese Orso.
«Una moto grossa, americana. Mamma l’ha venduta per pagare il funerale,» disse Matteo con la voce rotta. «Prima di partire mi stava insegnando come si accende una moto. Diceva che quando facevo sedici anni saremmo andati insieme fino al mare, solo io e lui.»
Ci guardammo tra noi. Eravamo in venticinque quella sera. Uomini duri, con cicatrici dentro e fuori. Uomini che avevano fatto cose che la gente normale vede solo nei film o nei telegiornali.
E tutti quanti, in quel momento, eravamo distrutti da un bambino di nove anni con venti euro in mano.
«Tieni i tuoi soldi, ragazzo,» dissi.
Il suo viso si spense. «Capisco. Non bastano. Scusate se vi ho disturbato.»
Si girò per andarsene.
«Ehi, Matteo.»
Si fermò.
«Ho detto di tenerti i soldi. Non ho detto che non ti aiutiamo.»
Si voltò di scatto. «Mi aiutate?»
«A che ora inizia la Giornata dei Mestieri?» chiesi.
«Alle nove. In palestra.»
«Scuola Primaria Statale Gianni Rodari. È quella in via dei Tigli, vero?»
Annuì.
«Ci saremo.»
«Ci… sarete?» Gli occhi gli si spalancarono. «Basta uno, davvero. Non voglio creare problemi.»
Serpente rise piano. «Ragazzo, noi siamo motociclisti. I problemi li portiamo sempre con noi.»
«Ma la scuola ha le regole. Un solo genitore per alunno.»
«Be’,» disse Orso, «sta per scoprire che, se ti metti contro il figlio di uno di noi, ti trovi davanti tutta la famiglia.»
«Ma io non—»
«Da questa sera sì,» dissi. «Domattina alle otto e mezza, davanti all’ingresso della scuola.»
«Come farò a sapere chi finge di essere mio padre?» chiese.
Lo guardai. Questo ragazzino coraggioso, disperato, col cuore spezzato.
«Lo faremo tutti.»
Gli occhi di Matteo si riempirono di lacrime. «Ma la maestra ha detto—»
«Ragazzo, lascia che ti dica una cosa sui militari in missione,» risposi. «Tuo padre era uno di loro. E chi parte così non lascia indietro nessuno. Mai. Tuo padre non c’è più, ma i suoi fratelli sono dappertutto. E domani ne incontrerai più di quanti riesci a contare.»
Accompagnammo Matteo a casa con il furgone di Orso. Volevo essere sicuro che arrivasse sano e salvo.
L’appartamento era piccolo, in una palazzina un po’ malandata di periferia. Ma pulito. In ordine. Foto del padre in uniforme su quasi ogni parete.
«Non dite niente a mamma,» ci pregò Matteo sulla porta. «Si arrabbierebbe perché sono uscito.»
«È il nostro segreto,» promisi.
Quella notte non riuscii a dormire. Continuavo a vedere quel bambino che camminava da solo tra palazzi grigi con venti euro in tasca per “affittare” un padre.
Presi il telefono.
Feci qualche chiamata.
La notizia corse veloce.
Alle otto e mezza in punto del mattino dopo, arrivammo alla Rodari. Non solo con le nostre venticinque moto.
C’erano anche le moto di altri due gruppi di volontari motociclisti della provincia. Ex militari, ex carabinieri, ex vigili del fuoco. Sessantaquattro moto, tra tutte. Qualcuno arrivò persino in auto perché non aveva più il fisico per la moto, ma non voleva mancare.
Matteo era lì, davanti al cancello, con lo zaino sulle spalle e la bocca spalancata.
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