Il bambino che camminò da solo di notte con 20 euro e trovò sessantaquattro padri inaspettati davanti a scuola

«Io… io non posso pagarvi tutti,» balbettò.

«Stai zitto, ragazzo,» disse Orso, ma con una gentilezza che non gli avevo mai sentito. «Tuo padre ha già pagato. Tre anni fa, in Afghanistan.»

La preside, la signora Rinaldi, arrivò di corsa, con la sciarpa svolazzante.

«Che cos’è questa confusione? Non potete parcheggiare qui! È una scuola, non un raduno!»

Scesi dalla moto.

«Signora Preside, siamo qui per la Giornata dei Mestieri.»

«La Giornata è solo per i genitori,» rispose a denti stretti.

«Noi siamo la famiglia di Matteo Bianchi.»

Guardò Matteo. «Questa è la tua famiglia?»

Prima che potesse rispondere, feci un passo avanti.

«Suo padre era il Caporal Maggiore Luca Bianchi. Caduto in missione. Questi uomini qui erano come lui. Colleghi, fratelli. Ex militari. Ex soccorritori. Gente che ha messo la vita al servizio degli altri.»

«Non è così che funziona la Giornata dei Mestieri. Un genitore per bambino, è scritto chiaramente nella circolare.»

«Vede, signora preside,» dissi tranquillo, «Matteo non ha un genitore solo. Ne ha sessantaquattro. E oggi entriamo tutti.»

«Chiamo i carabinieri,» sbottò lei.

«Faccia pure,» disse Serpente togliendosi il casco. «Il comandante della stazione è stato in caserma con me. Credo capirà quando gli racconteremo che una scuola vuole escludere il figlio di un militare caduto.»

La faccia della preside diventò paonazza. «Non è discriminazione. Sono regole.»

«Regole che puniscono i bambini senza padre?» domandò Orso.

Si stava radunando gente. Genitori, bambini, maestre. Tutti a guardare.

E fu allora che la vidi. La madre di Matteo. Arrivava di corsa dal parcheggio, ancora in divisa da lavoro, con la borsa della spesa in mano.

«Matteo! Che hai combinato?» Guardò noi, le moto, il figlio. «Madonna mia, che hai fatto?»

«Mamma, io…»

«Signora Bianchi?» mi avvicinai. «Suo figlio è venuto da noi ieri sera. Ha chiesto aiuto. Diceva che sarebbe stato penalizzato se non portava un padre alla Giornata dei Mestieri.»

Lei si girò verso la preside. «È vero?»

«Nel regolamento c’è scritto—»

«Il regolamento?» La voce della signora Bianchi si fece tagliente come un coltello. «Mio marito è morto in missione. Mio figlio non ha più il padre. E voi pensate di punirlo per questo?»

«Non si tratta di punizione, si tratta solo di—»

«È esattamente punizione,» dissi. Mi voltai verso gli altri genitori. «Quanti di voi sapevano di questa regola? Che i bambini senza padre sarebbero stati messi da parte durante la Giornata?»

Qualcuno abbassò lo sguardo. Pochi alzarono la mano, timidi.

«E nessuno ha pensato che fosse sbagliata?» chiese Orso.

Silenzio.

«Mio papà è morto!» gridò all’improvviso Matteo, con una voce che non avevo mai sentito in un bambino. «È morto e non torna più e voi volete chiudermi in un’aula perché non posso portarlo a scuola? Ho portato i soldi! Ho cercato qualcuno da affittare! Ho camminato da solo nel buio perché avevo paura di essere l’unico senza papà!»

Sua madre lo strinse forte. «Amore, no. Non dovevi…»

«Sì che dovevo! Perché la maestra ha detto niente eccezioni! Tutti hanno riso quando l’ha detto. Tutti mi hanno guardato e hanno riso, perché sapevano che io non potevo portare nessuno!»

Il cortile si fece muto. Si sentivano solo qualche colpo di tosse e il rumore lontano di un autobus.

La preside si sistemò gli occhiali. «Forse, in questo caso, possiamo fare un’eccezione—»

«No,» dissi. «Niente eccezione. O Matteo entra con tutti noi o non entra nessuno.»

«Non è—»

«Signora,» intervenne Serpente, «il padre di questo bambino è morto servendo il Paese. Molti di noi hanno perso amici in missione. Non permetteremo che si faccia provare vergogna a un orfano di guerra.»

Un uomo tra i genitori fece un passo avanti. In giacca e cravatta, valigetta in mano.

«Mio fratello era nell’Esercito,» disse. «Ha servito in Kosovo. Se questi signori non possono entrare tutti, vengo io alla Giornata dei Mestieri per Matteo.»

«Questi signori?» rise Orso. «Dillo bene.»

L’uomo arrossì appena. «Va bene. Questi motociclisti.»

«Esatto,» disse Orso. «Motociclisti. Volontari. Ex militari. E oggi tutti padri di Matteo.»

Altri genitori cominciarono a parlare.

«Mio padre era in Marina. È ingiusto.»

«Mio nonno era carabiniere. Sto con loro.»

«Anch’io. Se Matteo non entra con la sua famiglia, ce ne andiamo.»

Nel giro di cinque minuti, metà dei genitori si era schierata con noi.

La preside sembrava aver ingoiato un limone. «È tutto molto irregolare.»

«Irregolare,» dissi, «è far sentire un bambino sbagliato perché ha perso il padre.»

Guardò i genitori, le moto, noi. Guardò persino il giornalista di una tv locale che, chissà come, era già arrivato col cameraman al seguito.

«Va bene,» sospirò. «Ma solo i familiari stretti.»

Sorrisi. «Signora, noi siamo familiari stretti. Quando un militare muore, gli altri diventano padri, zii, fratelli dei suoi figli. È così che funziona tra noi.»

«Intendevo—»

«Abbiamo capito,» la interruppe Orso. «E abbiamo deciso di fare diversamente.»

Entrammo in palestra come una parata. Sessantaquattro uomini in giubbotto, qualcuno con il cappello degli Alpini, altri con le vecchie mostrine attaccate al gilet di pelle. Qualcuno zoppicava, qualcuno aveva le mani rovinate dal lavoro. Tutti con lo sguardo fiero.

Matteo camminava in mezzo a noi. La testa alta. Le lacrime che gli rigavano le guance, ma senza nasconderle.

La palestra era piena di tavoli. C’era il commercialista con le sue cartelline, il medico col camice bianco, il pizzaiolo con la pala di legno, l’autista di autobus con il giubbotto arancione.

Noi ci mettemmo in fondo. Nessun tavolo. Solo una fila di uomini in piedi, spalle dritte, come in una vecchia foto di reparto.

I bambini cominciarono ad avvicinarsi subito.

«Siete tutti i papà di Matteo?» chiese un bambino con gli occhiali.

«In un certo senso sì,» dissi.

«Ma com’è possibile?» intervenne una bambina con le trecce.

Parlò Matteo, con un filo di voce ma chiara. «Il mio vero papà è morto in Afghanistan. Era nell’Esercito. Ma mi aveva detto che i compagni non lasciano mai soli i figli di chi non torna. Così, quando è morto, i suoi amici sono diventati la mia famiglia.»

«Tutti?» chiese un altro.

«Tutti quelli che hanno ancora fiato per venire qui,» rispose Serpente. «Questo vuol dire fratellanza.»

Rimanemmo lì tre ore. Non a parlare di moto. Parlammo di servizio, di volontariato, di cosa significa aiutare chi è più fragile. Di stare dalla parte di chi resta indietro.

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