Matteo non si staccò mai da noi. Presentava ognuno come se fosse una celebrità.
«Questo è Giorgio. Era paracadutista. Questo è Marco. Ha fatto il vigile del fuoco per trent’anni. Questo è Sandro. Ha lavorato nell’ambulanza.»
Ogni volta aggiungeva: «Sono i fratelli di papà.»
Alla fine della mattinata, Matteo non era più “il bambino senza padre”.
Era il bambino con più padri di tutta la scuola.
La preside ci evitò per quasi tutto l’evento. Ma alla fine dovette venire.
«Signor Rossi,» disse.
«Giorgio,» la corressi.
«Giorgio,» annuì lei. «Devo chiederle scusa. A lei e soprattutto a Matteo. Non ho pensato… non ho riflettuto su come quella regola potesse…»
«Non ha pensato affatto,» disse la signora Bianchi, fermandosi accanto a noi. «Mio figlio ha raccolto bottiglie e lattine per sei mesi. Venti euro. Per pagare qualcuno che fingesse di essere suo padre. Perché voi lo avete fatto vergognare di essere figlio di un caduto.»
«Non era mia intenzione—»
«Le intenzioni contano poco,» dissi. «Contano le conseguenze. E la sua decisione, signora, ha detto a un bambino che la mancanza di suo padre è un problema.»
La preside annuì piano. Si voltò verso Matteo.
«Mi dispiace. Davvero.»
Matteo la fissò. A nove anni, in quel momento, sembrava molto più grande.
«Mio papà è morto per aiutare gli altri. Non mi vergogno più,» disse. «Non adesso.»
«Non più?» chiese lei.
«Questi uomini oggi mi hanno insegnato una cosa,» rispose Matteo. «Papà non è sparito. Vive in ogni persona che si prende cura di me. In ogni volontario che viene qui. In ogni ex soldato che si ricorda di lui.»
Gli occhi della preside si riempirono di lacrime. «Hai ragione. E io ho sbagliato.»
Quando fu il momento di andare via, Matteo corse da me.
«Giorgio?»
«Dimmi, ragazzo.»
Mi mise in mano le venti euro.
«Ti avevo detto di tenertele,» dissi.
«Lo so. Ma voglio che li tenga l’associazione. Per la benzina o per qualcos’altro.»
Guardai quelle banconote spiegazzate. Sei mesi di fatica. La fortuna di un bambino di nove anni.
«Facciamo così,» dissi. «Le mettiamo in una cornice e le appendiamo al muro del nostro deposito. E ogni volta che qualcuno chiederà che cosa sono, racconteremo la storia del bambino più coraggioso che abbiamo mai conosciuto.»
«Io non sono coraggioso,» mormorò.
«Ragazzo, hai camminato da solo per tutta la città, di notte. Hai affrontato la tua preside davanti a tutti. Hai spiegato a grandi e piccoli cosa vive un figlio di un militare caduto. Questo è coraggio.»
Sua madre si avvicinò. «Grazie. A tutti. Non so come potrò mai…»
«Signora,» disse Orso, «suo marito ha pagato il prezzo più alto. Noi facciamo solo quello che lui farebbe per i nostri figli.»
Lei scoppiò a piangere. «Gli sarebbe piaciuto. Tutte queste moto. Questo spirito da caserma. Gli sarebbe piaciuto sapere che Matteo non è solo.»
«Non lo sarà mai,» disse Serpente. «E nemmeno lei. Se ha bisogno di qualcosa, ci chiama.»
Le demmo i nostri numeri. Tutti.
Quando risalimmo in sella, Matteo corse da ognuno di noi. Ci abbracciò uno per uno.
Quando arrivò da me, sussurrò: «A papà saresti piaciuto.»
«Sono sicuro che a me sarebbe piaciuto lui,» risposi.
Accendemmo i motori. Il rombo riempì il cortile della scuola. Alcuni bambini si tappavano le orecchie, altri ridevano e battevano le mani.
Matteo non fece nessuna delle due cose.
Rimase lì, fermo, la mano alzata in un saluto che sapevo ben riconoscere.
Sessantaquattro motociclisti risposero a quel saluto.
Poi uscimmo in colonna. Lenti. Ordinati. Come un corteo funebre al contrario. Non per piangere un morto, ma per festeggiare i vivi.
Sono passati sei mesi da allora.
Matteo viene al deposito quasi ogni sabato pomeriggio. Sua madre lo accompagna. Lui ci aiuta a cambiare l’olio, a lucidare le carene, a passare il cacciavite. Impara come funziona un motore, ma soprattutto ci racconta di suo padre.
Noi gli insegniamo quello che possiamo. Non tanto ad andare in moto. A diventare un uomo. A tenere la parola. A proteggere chi è più debole.
La settimana scorsa è stata la Festa del Papà.
Matteo è arrivato con una busta enorme.
Dentro c’erano sessantaquattro biglietti fatti a mano. Ognuno diverso.
«Per Giorgio – Il papà che mi ha insegnato a non aver paura.»
«Per Marco – Il papà che mi ha insegnato che non si lascia indietro nessuno.»
«Per Sandro – Il papà che mi ha insegnato a stare dritto anche quando tremi.»
Sessantaquattro biglietti. Sessantaquattro frasi.
Non c’era un occhio asciutto in tutto il deposito. Un mucchio di uomini che avevano visto di tutto, commossi da cartoncini colorati e pennarelli.
Ma il biglietto che ci spezzò davvero fu un altro.
Era uno solo, grande, che portammo tutti insieme al cimitero.
C’era scritto:
«Per papà – I tuoi fratelli hanno mantenuto la promessa. Io non sono mai solo. Buona Festa del Papà in cielo. Con amore, Matteo.»
Lo firmammo tutti. Matteo lo posò sulla tomba di suo padre.
La preside Rinaldi, qualche settimana dopo quell’episodio, cambiò il regolamento della scuola. Ora non si chiama più “Giornata dei Mestieri dei Genitori”.
È diventata la “Giornata delle Professioni in Famiglia”. Può venire un genitore, un nonno, uno zio, un vicino, un allenatore, un volontario.
Nessun bambino resta fuori.
Ha anche avviato, insieme al Comune, un piccolo progetto: una volta al mese alcuni veterani e volontari vengono a scuola a parlare con i bambini che hanno perso un genitore, o che vivono situazioni difficili. Per ricordare loro che non sono soli.
Ha chiesto a noi degli “Angeli della Strada” di aiutarla.
Abbiamo detto di sì.
Perché è quello che il Caporal Maggiore Luca Bianchi avrebbe voluto: i suoi compagni che si prendono cura di suo figlio.
Ed è quello che facciamo.
Ci presentiamo.
Anche se ci vogliono sessantaquattro di noi per colmare il vuoto lasciato da un solo uomo.
Anche se vuol dire discutere con una preside e mettere in discussione alcune regole.
Anche se vuol dire che venti euro di un bambino diventano i soldi più preziosi che abbiamo mai ricevuto.
Matteo oggi ha quindici anni. Continua a venire il sabato. Ha preso da poco il foglio rosa per il motorino.
Quando compirà sedici anni, lo aspetterà una sorpresa.
Abbiamo ritrovato la moto di suo padre. Quell’uomo che l’aveva comprata dopo il funerale non voleva venderla. Abbiamo insistito, abbiamo pagato molto più di quello che valeva. L’abbiamo sistemata, pezzo per pezzo, come nuova.
È lì nel nostro garage. Coperta da un telo. Sopra il manubrio c’è un biglietto.
«Per Matteo. Da tutti i tuoi papà. Buona strada.»
Perché suo padre è morto in una terra lontana.
Ma quel giorno in cui un bambino di nove anni ha camminato al buio con venti euro in tasca, ha trovato qualcosa che non aveva chiesto: una famiglia intera.
E noi, che pensavamo di andare in moto per il vento sul viso, per il rumore del motore, per la sensazione di libertà, abbiamo ricordato il vero motivo per cui lo facciamo.
Per poter essere lì quando un ragazzo come Matteo bussa al cancello.
Per quei momenti in cui il coraggio disperato di un bambino incontra la nostra voglia di non lasciare nessuno indietro.
Per i giorni in cui una semplice Giornata dei Mestieri diventa una dichiarazione silenziosa:
Nessun figlio di chi è caduto deve sentirsi solo.
Non finché ci saremo noi.
Non finché ci saranno uomini pronti a salire in sella e presentarsi.
Non finché, su un muro un po’ scrostato del nostro deposito, venti euro incorniciati continueranno a ricordarci la promessa fatta una sera, davanti a un cancello:
“Domani saremo tutti tuo padre.”






