Il bambino col pigiama insanguinato che entrò nel nostro moto-bar cercando gli angeli di sua madre

I motociclisti stavano giocando a carte quando il bambino di sei anni spinse la porta e trascinò dentro qualcosa che nessuno di noi avrebbe mai voluto vedere.

«La mamma non si sveglia…» disse, con il pigiama blu pieno di sangue che non era il suo. «Ha detto: “Cerca gli angeli”. Siete voi gli angeli?»

Alle sue spalle, dalla porta aperta della Taverna del Lupo, la vedemmo.
Una donna, poco più che trentenne, distesa a faccia in giù sulla soglia, come se avesse strisciato fino a lì tenendo la mano del suo bambino, per morire davanti a un circolo di motociclisti a mezzanotte di un martedì qualsiasi in una città del nord Italia.

Lasciai cadere le carte sul tavolo. Avevo un bel tris, ma non importava più.
Il bambino – non poteva avere più di sei anni – teneva ancora la mano della madre.
La sua mano morta.

Aveva trascinato il suo braccio fin dentro al locale, come se pensasse che, una volta portata completamente dentro, noi potessimo aggiustarla.

«La mamma ha detto che gli uomini con le moto sono angeli» ripeté, con una vocina così piccola che spezzò qualcosa dentro ognuno di noi. «Ha detto di trovare gli angeli e dirgli del cattivo.»

Mi chiamo Marco “Orso” Bellini, ho 62 anni e vado in moto con il motoclub “I Lupi Randagi” da quasi quarant’anni.
Sì, lo so, il nome fa paura. L’abbiamo scelto quando eravamo giovani e scemi, ci sembrava duro e ribelle.

Adesso siamo vecchi e ci siamo rimasti attaccati: un branco di nonni con un nome minaccioso che passa quasi tutti i fine settimana a raccogliere fondi per il reparto pediatrico dell’ospedale.

Quella notte eravamo in otto, il solito giro del martedì per la partita a carte.
La Taverna del Lupo era il nostro posto – ufficialmente intestato alla moglie di Lello, ma di fatto il nostro “clubhouse”, dove dopo la chiusura si parlavano anche le cose serie del motoclub.

Il bambino restava lì, fermo, ancora aggrappato alla mano della madre, come in attesa che diventassimo davvero gli angeli che lei gli aveva promesso.

«Santa…» mormorò Dente, già muovendosi verso la porta.

«Aspetta» lo fermai, allungando un braccio. «Non toccare niente. È una scena del crimine. Non possiamo rovinarla.»

Tirai fuori il cellulare, feci il numero d’emergenza, poi mi abbassai fino ad arrivare all’altezza degli occhi del bambino.

«Come ti chiami, campione?»

«Luca» sussurrò. «La aggiustate la mia mamma?»

«Adesso arrivano quelli che possono aiutarla. Ma tu puoi fare una cosa per me, Luca? Puoi lasciare la mano della mamma?»

«No.» Scosse la testa così forte che gli tremarono le labbra. «Ha detto: “Non lasciare la mia mano. Non lasciarla mai finché non trovi gli angeli”.»

Toni, che una volta faceva il paramedico, stava già controllando il polso della donna, sapendo bene che non l’avrebbe trovato.
Mi guardò e scosse piano la testa. Era morta da almeno un’ora.

«Luca, noi siamo gli angeli di cui parlava la mamma» dissi piano. «Ci hai trovati. Sei stato bravissimo. Adesso puoi lasciare la sua mano, ci siamo noi.»

«Promesso che siete angeli?»

«Promesso.»

Lasciò la presa.
La sua manina era tutta macchiata di rosso, ed è stato allora che ho visto il biglietto appuntato al pigiama, all’altezza del petto, fermato con una spilla da balia.

Scritto con qualcosa che sembrava matita nera da trucco, con una calligrafia tremante:

«Si chiama Luca. Suo padre ci vuole uccidere. Vi prego, proteggetelo. Nessuno ci crede. Fidatevi dei motociclisti.»

Le sirene si sentivano già in lontananza.
Ma prima che arrivassero, Luca disse una cosa che cambiò tutto:

«Il cattivo viene qui. La mamma ha detto che ci troverà. Lui ci trova sempre.»


I primi ad arrivare furono i carabinieri e un’auto della polizia.
Con loro c’era l’ispettore che conoscevamo da anni, Chiara Neri. Avevamo avuto a che fare più di una volta: qualche controllo, qualche discussione, qualche iniziativa benefica fatta insieme per i ragazzi del quartiere.

Diede un’occhiata alla scena – una donna morta, un bambino pieno di sangue, otto motociclisti dall’aria dura – e la mano le andò istintivamente alla fondina.

«Nessuno si muova.»

«Chiara, non è come sembra» dissi alzando le mani. «Il bambino è entrato da solo. Leggi il biglietto sulla sua maglietta.»

Lo lesse, poi guardò la donna a terra.
Ferite da coltello, segni sulle braccia di chi ha provato a difendersi fino all’ultimo.
Quella donna aveva lottato con tutte le forze per restare viva abbastanza da portare suo figlio in un posto che lei riteneva sicuro.

«Luca» disse l’ispettore, con voce dolce. «Chi è il cattivo?»

«Il papà. Il papà è il cattivo.»

«Come si chiama il tuo papà?»

«Si chiama Lorenzo. Lorenzo Valli.»

Nella stanza calò un silenzio di pietra.
Conoscevo quella faccia: lo sguardo di chi ha appena sentito un nome pesante.

«Il giudice Valli?» chiese Chiara, molto piano. «Tuo padre è il giudice Lorenzo Valli?»

Luca annuì, stringendosi le maniche del pigiama fra le dita.

«Ha detto che doveva sistemare la mamma» mormorò. «Che parlava troppo. Che voleva raccontare le cose brutte che fa. Ha detto che se parlavamo, sistemava anche me.»

Chiara mi prese da parte, a bassa voce.

«Marco, lo sai anche tu com’è messo questo paese» sussurrò. «Il giudice Valli è intoccabile. Amici dappertutto. Se quello che dice il bambino è vero…»

«Vuoi dire se quello che dice sua madre è vero. Perché quel biglietto l’ha scritto lei.»

«Anche così. Valli è collegato a mezzo tribunale, politici, avvocati. Ci saranno pressioni da tutte le parti. Il bambino nel sistema non è al sicuro.»

«E allora che ne sarà di lui?»

«Affido urgente, struttura protetta, forse fuori regione. Nella migliore delle ipotesi. Ma se Valli vuole trovarlo… lo troverà.»

Guardai Luca, seduto su uno sgabello alto, le gambe che penzolavano, ancora con quel pigiama blu macchiato.
Sembrava troppo piccolo per il casino in cui era finito.

«No.»

«No, cosa?»

«No che non lo mettete nel sistema così, a caso. Lo prendiamo noi.»

«Non puoi “prendere” un bambino, Marco, non funziona…»

«Guardami.» La fissai dritta negli occhi. «Guardaci.» Alle mie spalle c’erano gli altri sette Lupi Randagi, in piedi, in silenzio. «Pensi che lo lasceremo andare da solo in un posto dove chiunque può entrare con un foglio firmato da un giudice amico?»

Fu allora che la porta della taverna si aprì di nuovo.
Era quasi l’una e mezza di notte, ma lui era lì, con il suo cappotto elegante e la cravatta ancora perfetta. Il volto composto di chi è abituato alle telecamere.

«Ho saputo di mia moglie» disse, senza nemmeno guardare il corpo. «Una tragedia. Era da mesi che non stava bene. Visioni, paranoie. Cercavo di convincerla a farsi aiutare, ma…»

Fece un passo verso Luca e allungò la mano.

«Andiamo a casa, figliolo. Qui hai già visto abbastanza.»

Luca urlò.
Non un urlo qualsiasi: il suono crudo della paura pura.
Corse verso di me, mi abbracciò la gamba, si nascose contro i miei jeans impregnati di fumo.

«Per favore, angelo…» singhiozzò. «Non lasciarlo portarmi via. Lui ha fatto male alla mamma. Ha detto che toccava a me se raccontavo.»

Per un istante la maschera del giudice si incrinò.
Solo un secondo, ma bastò per vedere cosa c’era sotto.

«Il bambino è traumatizzato» disse poi, tornando al suo tono calmo. «Sua madre gli ha riempito la testa di sciocchezze. Devo portarlo a casa, in un ambiente stabile, e trovargli un buon psicologo.»

«Da te non ci va» dissi.

«Sono suo padre. Ho dei diritti.»

«E lui ha il diritto di restare vivo.»

Il giudice si rivolse a Chiara.

«Ispettore, porto via mio figlio. Se questi signori provano a impedirlo, li arresterete.»

Vidi il conflitto negli occhi di lei. Dovere, legge, paura, coscienza. Tutto insieme.

Lello, il più grosso di noi, ex militare, fece un passo avanti.
«Chiara, tu hai figli?»

«Due» rispose, quasi senza pensarci.

«Allora guardalo» disse indicando Luca. «Guardalo negli occhi e dimmi che lo consegnerai a un uomo di cui ha paura così.»

«La legge…» iniziò lei, con voce incerta.

«La legge è fatta per difendere chi non si può difendere da solo» sbottò Toni. «Se stasera serve coraggio per applicarla, noi siamo qui.»

Valli tirò fuori il telefono.

«Chiamo il comandante. E il procuratore. Sono tutti miei colleghi. Domani sarete voi a dovervi spiegare, non io.»

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