«Ottimo» dissi. «Chiama pure tutti. Così domani i giornali potranno scrivere: la moglie di un giudice arriva mezzo dissanguata davanti a un motoclub, il figlio pieno di sangue entra con un biglietto che dice che il padre li vuole uccidere… e la prima cosa che fa il giudice è cercare di portare via il bambino, senza nemmeno chiedere come sta la madre.»
«È una minaccia?»
«No. È la verità. E io questo bambino lo proteggo. Tutto qui.»
Lo stallo durò almeno venti minuti.
Valli faceva telefonate, alzava la voce, prometteva conseguenze.
Noi stavamo fermi, uno accanto all’altro, fra lui e Luca. Una muraglia di pelle nera, barbe bianche e cicatrici vecchie.
Alla fine fu Chiara a decidere.
Forse pensando ai suoi figli. Forse pensando a tutte le donne che aveva visto tornare a casa con il marito violento perché “non c’erano prove sufficienti”.
«Signor Valli» disse, con tono formale. «Visto il quadro attuale, il minore deve essere affidato in via d’urgenza ai servizi sociali, in una collocazione protetta, fino a nuovi accertamenti. È la prassi in casi di presunta violenza domestica con esito mortale.»
«Questo non è…»
«Sua moglie è morta. Suo figlio è coperto del suo sangue e sostiene che lei l’abbia uccisa. È esattamente un caso di violenza domestica. Non posso consegnarle il bambino questa notte.»
«E a chi lo affiderete?» chiese il giudice, con un sorriso freddo. «A qualche casa famiglia che posso far controllare in due telefonate?»
Mi schiarii la voce.
«A me» dissi. «Sono affidatario registrato. Io e mia moglie abbiamo avuto in affido diversi bambini, prima che lei se ne andasse.»
Questo era vero.
Dopo che mia moglie era morta, ero rimasto solo, ma lo status di affidatario era ancora attivo.
Valli rise, breve e amaro.
«Un motociclista come famiglia affidataria? Nessun giudice al mondo lo accetterà.»
«Il giudice De Santis sì» ribatté Chiara. «È di turno stanotte. E credo che non abbia dimenticato chi era il magistrato che ha fatto prescrivere la causa di sua sorella.»
Per la prima volta Valli perse davvero colore.
«Questa storia non finirà qui» sibilò.
«No» dissi. «Qui comincia.»
Dopo che se ne fu andato, dopo che portarono via il corpo della donna – si chiamava Elena, l’avremmo scoperto dopo – e dopo che finimmo tutte le dichiarazioni, restammo io e Luca.
Erano quasi le cinque del mattino quando ci sedemmo in un bar aperto all’alba, vicino alla stazione.
Lui davanti a un piatto di brioche e cioccolata, che divorava come se non mangiasse da giorni.
«La tua mamma ci ha chiamati angeli» dissi. «Sai perché?»
«Ne aveva conosciuto uno» rispose lui, con la bocca sporca di crema. «Quando ero piccolo. Papà la picchiava e un motociclista l’ha fermato. Le ha dato un biglietto e ha detto: “Se hai bisogno, chiamaci”. Ma papà l’ha trovato e l’ha bruciato.»
«Però lei non si è dimenticata.»
«Diceva che solo i motociclisti non avevano paura del papà. Tutti gli altri sì. Ma non gli angeli.»
«Non siamo davvero angeli, sai, Luca. Siamo solo uomini un po’ testardi, con le moto.»
«La mamma diceva che gli angeli non hanno sempre le ali» rispose. «A volte hanno i caschi.»
Alle otto del mattino, il tribunale per i minorenni approvò l’affido urgente.
Il giudice De Santis, informata di chi fosse il padre, si prese il tempo di ascoltare bene l’ispettore Neri.
Luca venne affidato temporaneamente a me. Settanta-due ore, dissero, giusto il tempo di “capire meglio la situazione”.
Valli, ovviamente, si oppose subito.
Ma non aveva fatto i conti con sua moglie.
Elena era stata più furba di lui.
Da mesi registrava tutto: audio sul telefono, video nascosti, copie dei file salvate su un account protetto.
Minacce, insulti, schiaffi, frasi dette a voce bassa convinto che nessuno l’avrebbe mai sfidato.
Poche ore prima di fuggire con Luca, aveva mandato tutto a una giornalista che si occupava di violenza domestica, con un messaggio chiaro:
«Se mi succede qualcosa, pubblica tutto.»
La notizia esplose tre giorni dopo.
Titoli ovunque: “Stimato giudice indagato per maltrattamenti e omicidio della moglie”.
Le registrazioni erano terribili, ma senza dettagli macabri.
Si sentiva lui che la minacciava, che parlava di “sistemarla”, di “far sparire i problemi”, di “non avere paura di nessun tribunale, perché i tribunali li conosceva tutti”.
«Nessuno ti crederà» diceva in una di quelle registrazioni. «Io sono rispettato. Tu non sei nessuno. Quando ti farai male sul serio, penseranno che te la sei cercata.»
Valli fu arrestato in un circolo molto elegante, davanti a colleghi e conoscenti.
Le immagini delle manette ai polsi di un giudice famoso girarono per giorni.
Ma non era quella la vera battaglia.
Quella doveva ancora arrivare: il processo.
Fu un circo, come succede spesso quando cade qualcuno in alto.
Avvocati famosi, telecamere, opinioni ovunque.
La difesa dipinse Elena come instabile, gelosa, ossessionata.
Arrivarono a sostenere che fosse uscita di casa disperata, si fosse ferita da sola per incastrare il marito, e poi fosse crollata davanti al nostro locale.
Tutto, pur di non ammettere l’ovvio.
E poi c’era Luca.
Un bambino di sei anni che, dicevano, avrebbe dovuto testimoniare.
«Non voglio» mi disse la sera prima dell’udienza. «Lui mi guarderà in quel modo. Ha detto che se parlo mi farà male.»
«Non succederà» gli dissi. «Non finché ci sarò io.»
«Tu ci sarai?»
«Io e tutti i Lupi. Gli angeli ci saranno.»
E ci siamo stati.
Quarantatré giubbotti di pelle e facce segnate seduti sulle panche dei corridoi del tribunale, chi dentro l’aula, chi fuori, perché non c’era posto per tutti.
Una muraglia silenziosa fra Luca e chiunque volesse fargli paura.
Quando Luca salì sul banco dei testimoni, Valli provò a fissarlo, a intimidirlo con lo sguardo pacato da “uomo per bene”.
Ogni volta che Luca esitava, alzava gli occhi e cercava me. Mi trovava lì, in fondo, con tutti i miei fratelli dietro.
E ogni volta la sua voce diventava un po’ più ferma.
«Papà ha preso il coltello» disse chiaro. «La mamma è caduta e lui continuava a colpirla. Lei mi ha detto: “Corri. Vai dagli angeli”. Quando lui è uscito per prendere qualcosa per pulire, io l’ho aiutata ad alzarsi. Zoppicava. Ma siamo arrivati dai motociclisti.»
«Perché proprio lì?» chiese il pubblico ministero.
«La mamma passava spesso davanti a quel posto» rispose Luca. «Diceva: “Se un giorno qualcosa va storto, vai lì. Loro non hanno paura di lui”.»
L’avvocato di Valli provò a smontare tutto.
Disse che un bambino può confondere i ricordi, che c’erano i giornali, la televisione, le parole degli adulti.
Ma c’è una cosa che non si può inventare: il modo in cui trema la voce quando racconti la notte in cui hai perso la mamma.
La giuria lo vide. Lo sentì.
Valli fu dichiarato colpevole.
Condannato a una lunga detenzione.
Quando lo portarono via, mi guardò e articolò senza voce: «Non è finita.»
Gli risposi con un semplice: «Per Luca, sì.»
Di quella condanna sono passati tre anni.
Luca ora ha nove anni.
Per la legge, sono io suo padre.
L’adozione è stata ufficializzata l’anno scorso.
Mi chiama “papà”, anche se ogni tanto, quando parliamo di quella notte, mi chiama ancora “il mio angelo”.
Viaggia con me sul sellino posteriore della moto, con il casco più piccolo che siamo riusciti a trovare e il gilet di pelle da “cucciolo di Lupo” che gli hanno cucito al motoclub.
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