Il club l’ha adottato a sua volta: quarantatré zii con tatuaggi e mani grosse, pronti a difenderlo come se fosse sangue del loro sangue.
Il mese scorso è stato l’anniversario della morte di Elena.
Siamo andati al cimitero, come facciamo ogni anno.
Luca ha lasciato sulla tomba qualche macchinina e un piccolo pupazzo di un eroe dei fumetti.
«Ciao, mamma» ha detto piano, davanti alla lapide. «Gli angeli si sono presi cura di me, proprio come avevi detto. Il mio papà-angelo mi sta insegnando a essere forte e a proteggere chi non ce la fa da solo. Come tu hai protetto me.»
È rimasto un attimo zitto, poi ha aggiunto:
«E il cattivo non può più far male a nessuno. Gli angeli ci hanno pensato loro.»
Non gli abbiamo mai raccontato i dettagli.
Sa solo che Valli è morto in carcere, mesi fa, per un malore improvviso.
Di più non serve.
Tornando verso le moto, mi fece una domanda che non mi aveva mai fatto prima.
«Perché mi avete aiutato quella notte? Non mi conoscevate.»
«Perché tua madre aveva ragione su di noi» risposi. «Non siamo santi, non siamo perfetti. Ma cerchiamo di essere quello di cui la gente ha bisogno quando non ha più nessuno. Quella notte tu avevi bisogno di protezione. E noi siamo diventati questo.»
«A scuola dicono che i motociclisti fanno paura» mi disse.
«Tu hai paura di noi?»
«No. Però so che i cattivi dovrebbero averne.»
«E allora funziona così come deve funzionare» sorrisi.
Salì dietro di me, mi cinse la vita con le braccia magre.
«Papà?»
«Dimmi.»
«La mamma aveva ragione. Gli angeli non hanno sempre le ali. A volte hanno i caschi e le giacche di pelle.»
Rientrammo alla Taverna del Lupo, dove ci aspettava la cena comunitaria.
“I Lupi Randagi MC” – il nome più minaccioso della città, dice qualcuno – quella sera organizzavano una serata di pasta al forno per raccogliere fondi per un’associazione che aiuta le donne che vogliono scappare da situazioni come quella di Elena.
Luca correva fra i tavoli con il suo piccolo gilet, aiutando a portare i piatti, ridendo con altri bambini del quartiere.
L’ispettore Neri passò a salutarci, come fa ogni tanto. È andata in pensione da un po’, ma continua a passare per vedere come sta Luca.
«Sai» mi disse guardandolo giocare. «Quella notte vi ho presi per pazzi. Mettervi contro un giudice potente per un bambino che non conoscevate…»
«E adesso?»
«Adesso penso che Elena fosse la donna più lucida che non ho mai conosciuto» mormorò. «Sapeva benissimo dove mandare suo figlio. Non alla polizia, non ai corridoi di qualche ufficio. Ma da chi non si sarebbe spostato di un centimetro.»
«Non siamo eroi, Chiara.»
«No. Ma quella notte siete stati angeli. Lei gli aveva promesso angeli, e lui li ha trovati.»
Luca arrivò correndo, la faccia sporca di sugo.
«Papà! Zio Lello dice che domani mi fa vedere come si cambia l’olio alla moto!»
«Allora domani si lavora sul serio» gli dissi ridendo.
Lui tornò dagli altri bambini, e Chiara sorrise.
«Tre anni fa, quel bambino ha visto morire sua madre» sussurrò. «Guardalo adesso.»
«I bambini sono forti» dissi.
«Lo sono» annuì. «Ma solo se qualcuno li prende al volo quando stanno per cadere. Tu l’hai preso al volo.»
Quella notte, dopo che Luca si addormentò, rimasi seduto nella sua stanza per un po’.
Sul muro c’era una foto: lui in mezzo a tutti noi, scattata il giorno dell’adozione, quarantatré giubbotti di pelle e un bambino con un sorriso grande quanto la faccia.
Nell’angolo della cornice, Luca aveva infilato qualcosa: il biglietto che la madre gli aveva appuntato al pigiama quella notte.
La carta era un po’ scolorita, ma si leggeva ancora chiaramente:
«Fidatevi dei motociclisti.»
Tre parole che gli avevano salvato la vita.
Tre parole scritte da una donna che, con il suo ultimo respiro, aveva mandato suo figlio nel posto dove qualcuno avrebbe avuto il coraggio di dire no.
Luca ogni tanto parla nel sonno.
Un tempo chiamava la mamma, piangeva, si agitava.
Ora, spesso, borbotta di motori, di viaggi, di strada.
Domattina si sveglierà in una casa dove è al sicuro.
Farà colazione con me, litigherà bonariamente con gli zii su quale moto sia più bella, andrà a scuola in moto, con il casco allacciato bene.
Crescerà sapendo che sua madre l’ha amato abbastanza da consumarsi le ginocchia sull’asfalto pur di portarlo dagli “angeli”.
E sapendo che, a volte, gli angeli non hanno aureole né ali.
A volte hanno mani sporche di grasso, giacche di pelle rovinate, vecchie cicatrici sulle nocche.
E un giuramento semplice nel cuore:
Se un bambino bussa alla nostra porta chiedendo aiuto, non lo lasciamo mai solo.






