Il bambino scalzo che corse verso lo sconosciuto più spaventoso del parcheggio e cambiò tutto

Il bambino corse verso l’uomo più spaventoso del parcheggio e sussurrò con il fiato corto:
«Per favore, fai finta di essere il mio papà prima che mi trovi lui.»

Stavo facendo rifornimento in una stazione di servizio sulla tangenziale, il giubbotto di pelle pieno di toppe dei Vigili del Fuoco e di vecchie operazioni di soccorso, quando questo bambino in pigiama e a piedi nudi attraversò di corsa il piazzale.

Dietro di lui, un’utilitaria grigia sgommò all’angolo, e il bambino si nascose subito dietro la mia moto, tremando tutto, come una foglia nella bora.

L’uomo che scese dalla macchina sembrava il classico padre perbene di periferia: ben rasato, polo stirata, scarpe lucide, l’aria di chi accompagna i figli a calcio e va in chiesa la domenica. Ma la paura negli occhi del bambino raccontava un’altra storia.

«Dov’è?» chiese l’uomo, avvicinandosi a me con la sicurezza di chi non è abituato a sentirsi dire di no. «Dov’è mio figlio?»

«Non so di cosa stia parlando,» risposi, continuando a tenere in mano la pistola della benzina, mentre il bambino restava accucciato dietro la moto cercando di diventare invisibile.

«L’ho visto correre qui. È mio figlio, Luca. È confuso, ha problemi, si inventa delle storie.» Il sorriso dell’uomo era studiato, quasi simpatico. «Sicuramente le sta dando fastidio. Luca! Vieni fuori subito!»

Il bambino si strinse ancora di più contro la ruota, e lo sentii mormorare una frase che mi gelò il sangue:
«Lui ha fatto del male alla mamma. La polizia non mi crede. Per favore.»

Mi spostai appena, mettendomi tra l’uomo e la moto dietro cui si nascondeva Luca.

«Come le ho detto, non ho visto bambini,» ripetei, con voce piatta. «Magari provi al fast food dall’altra parte della strada.»

La maschera dell’uomo si incrinò un istante. «So che è qui. L’ho rintracciato col telefono.»

«Allora dovrebbe sapere che i telefoni si possono buttare,» dissi, accennando col mento al cassonetto. «I ragazzi oggi sono svegli.»

In quel momento entrarono nell’area di servizio tre moto. I miei amici dell’associazione “Vecchi Caschi”, tutti ex vigili del fuoco come me, stavano tornando dal giro serale da cui io ero rientrato prima. Sandro, detto Orso, Pietro e Nino – uomini che avevano visto abbastanza tragedie per riconoscere il male a colpo d’occhio.

«Tutto a posto, Marco?» chiese Orso scendendo dalla moto. Un metro e novanta, spalle larghe, braccia come tronchi.

«Questo signore ha perso il figlio,» dissi con calma. «Gli stavo suggerendo di cercare da un’altra parte.»

L’atteggiamento dell’uomo cambiò di colpo. Quattro uomini massicci in giubbotto di pelle contro un padre elegante e solo – l’aritmetica non era dalla sua parte.

«È una questione di famiglia,» borbottò, stringendo la mano in tasca, come se nascondesse qualcosa. «Non voglio problemi.»

«Neanche noi,» rispose Pietro, spostandosi dall’altro lato della pompa di benzina, coprendo con il suo corpo la visuale sulla mia moto. «Facciamo il pieno e torniamo a casa.»

L’uomo rimase lì immobile per un attimo, valutando la situazione. Poi tornò alla macchina.
«Se lo vedete, ditegli che lo cerca suo padre. Ditegli… ditegli che sua sorella ha bisogno di lui a casa.»

Ripartì, ma non andò lontano. Lo vedemmo parcheggiare nel piazzale del fast food di fronte, con i fari spenti, a osservare.

«Se n’è andato, piccolo,» dissi piano.

Luca uscì dal suo nascondiglio, il pigiama strappato e sporco. «Non è il mio vero papà. Ha sposato la mamma due anni fa. Lui… lui le ha fatto male stasera. Molto male. Mi ha detto di scappare, di cercare aiuto. Ma quando mi sono voltato…» La voce gli si spezzò.

Orso si mise in ginocchio, la faccia segnata da cicatrici ma stranamente dolce. «Come si chiama tua mamma e dove abitate, Luca?»

Il bambino glielo disse, e Nino prese subito il cellulare, un vecchio telefono senza contatti personali, e chiamò il 112. Segnalò una possibile aggressione in casa, chiese un controllo urgente, spiegò quello che avevamo visto.

«Dobbiamo portarti in un posto sicuro,» dissi al bambino. «Ti va di andare in caserma?»

«NO!» quasi urlò. «Lui è amico di alcuni poliziotti. Vengono a casa nostra per le grigliate. Non mi credono. Non mi credono mai.»

Ci guardammo tutti e quattro. Ognuno di noi aveva visto, in vita sua, persone che cadevano negli spazi vuoti del sistema.

«C’è una trattoria sulla statale, cinque–sei chilometri più avanti,» disse Pietro. «Mia sorella la gestisce. Ha telecamere, sempre gente, tanti testimoni.»

«Porto io il bambino,» dissi. «Voi ci seguite e controllate che nessuno ci venga dietro.»

Luca impallidì. «In moto?»

«Per te, adesso, è il posto più sicuro,» gli dissi con calma. «Quella macchina non potrà seguirci dove possiamo passare noi.»

Tirai fuori il cellulare e aprii la fotocamera. «Luca, ho bisogno che tu dica davanti al telefono che stai venendo con me perché lo vuoi tu, che hai chiesto aiuto. Ce la fai?»

Annuì e, con una chiarezza che non ti aspetteresti da un bambino di sei anni, raccontò tutto: le botte del patrigno, la mamma ferita, la paura che potesse tornare a colpirlo. Parole che, più tardi, sarebbero potute contare.

Nino mi porse il suo casco di scorta – troppo grande per Luca, ma sempre meglio di niente. «Le telecamere della stazione hanno ripreso tutto,» disse. «L’uomo che ti minaccia, il bambino che chiede aiuto.»

Mentre aiutavo Luca a salire sulla sella, lui sussurrò: «E se fosse morta? Se l’avessi lasciata morire?»

«Hai fatto quello che ti ha chiesto,» risposi deciso. «Hai cercato aiuto. È quello che fanno i bambini coraggiosi.»

Partimmo in formazione, quattro moto attorno a un bambino terrorizzato. La macchina dall’altra parte della strada provò a seguirci, ma ci perse quando tagliammo attraverso una strada secondaria e poi rientrammo da un’altra via.

Alla trattoria, le mani di Luca tremavano così tanto che non riusciva a tenere la tazza di cioccolata calda che mia sorella gli aveva offerto. Il locale era pieno di camionisti e lavoratori del turno di notte, testimoni silenziosi dello stato in cui era quel bambino.

«Il mio telefono,» si ricordò all’improvviso. «Può trovarmi col telefono!»

«Dallo a me,» disse Orso. Tolse la scheda sim con un gesto secco, poi chiese al cuoco di riporlo in un cassetto metallico in cucina. «Adesso non può più.»

Dopo una mezz’ora, arrivarono due pattuglie. Ma non erano i volti familiari che Luca temeva. Erano carabinieri del Nucleo operativo, chiamati espressamente da Nino nella sua telefonata.

«Tu sei Luca?» chiese con dolcezza la carabiniera, una donna sui quarant’anni.

Luca annuì, facendosi piccolo sulla sedia.

«La tua vicina, la signora Fabbri, ci ha chiamati,» continuò. «Ha sentito urla e ha visto tua mamma portata via in ambulanza. Ha anche visto te scappare e il tuo patrigno correrti dietro. Tua mamma… è viva, Luca. È grave, ma viva. Sta chiedendo di te.»

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