E io, vecchio testardo, capii che Tobia aveva fatto quello che io non ero riuscito a fare: aveva tenuto aperto un varco tra le persone, anche quando le persone costruivano muri.
Quel giorno, dopo che l’autobus ripartì, restai sotto la quercia con la lista in mano. Mi sedetti sul tappetino e guardai le radici, la pallina nuova, il biscotto, il frisbee, il pane, il disegno.
E mi venne un’idea.
Non grande. Non ero più un uomo da grandi idee.
Una piccola idea, ma giusta.
Tornai in casa, presi un foglio e una penna, e scrissi con la mia calligrafia lenta:
“Se Tobia ti ha fatto bene anche solo una volta, scrivilo qui.”
“Non serve essere bravi a scrivere.”
“Serve solo essere veri.”
Lo misi in una busta trasparente, con un quaderno e una matita, e lo appesi al cancello, ben visibile, in una custodia di plastica che avevo usato anni fa per proteggere i documenti dalla pioggia.
Non era un’iniziativa. Non era un progetto.
Era un invito.
Quella sera, quando tornai a prendere il quaderno, trovai già tre frasi.
Una diceva:
“Ho smesso di tremare quando mi leccava la mano.”
Un’altra:
“Mi mancava la mamma. Lui mi guardava e sembrava dire: ‘Resisti’.”
E l’ultima, scritta con grafia da bambino:
“Ciao Tobia, oggi sono salito sul bus senza paura.”
Mi sedetti sul gradino di casa e lessi quelle frasi al buio, con la luce del corridoio che cadeva sul foglio. E pensai una cosa semplice:
Adele aveva ragione. La casa era troppo silenziosa. Ma non era solo la mia casa. Era anche il quartiere.
La settimana dopo, la panchina fu pronta.
La portai all’angolo con una carriola, bestemmiando piano per lo sforzo e ridendo da solo perché mi sembrava una scena che Tobia avrebbe approvato: io che fingo di essere forte, e poi mi fermo a metà a prendere fiato.
Dario mi aiutò a sistemarla. Non parlò molto. Non ce n’era bisogno.
Quando la panchina fu al suo posto, sotto la quercia, mi sedetti.
Guardai l’incrocio.
Aspettai.
Alle 7:05, la linea 14 arrivò.
Rallentò.
E, come sempre ormai, si fermò.
Il motore si spense.
E per un minuto, il mondo intero restò in silenzio.
Ma stavolta quel silenzio non era un addio.
Era un continuare.
Dario scese, guardò la panchina, annuì soddisfatto.
— “Allora,” disse, “adesso abbiamo una fermata con seduta.”
— “E con saluto obbligatorio,” aggiunsi.
Lui sorrise.
I ragazzi scesero. Si sedettero. Scrissero nel quaderno. Qualcuno posò una mano sul legno della panchina, come per trasferire calore.
Io li guardai e sentii che, sì, la casa era ancora silenziosa.
Ma non era vuota.
Perché ogni mattina, per cinque minuti, un cane che non c’era più riusciva ancora a far fermare un autobus.
E capii che non puoi davvero perdere qualcuno come Tobia, quando ha insegnato a tante persone la cosa più rara di tutte:
fermarsi.
Fermarsi davvero. Guardarsi. Dire ciao.
Io, Elio, settantadue anni, mi sedetti sulla panchina e respirai.
E per la prima volta da quando Tobia se n’era andato, non sentii solo la mancanza.
Sentii anche la sua eredità.
Un’ombra calda che passava tra i bambini come una coda che spazza le foglie.
E in quel momento, dentro di me, una voce vecchia e testarda sussurrò la stessa cosa che Tobia sembrava dirmi ogni giorno, tornando verso casa:
“Missione compiuta. Sono al sicuro per un altro giorno.”






