Mia figlia è ancora viva oggi grazie al cane che, poche ore prima, avevo deciso di riportare al rifugio.
Mi chiamo Chiara, ho trentaquattro anni e vivo al quarto piano di un palazzo senza ascensore nella periferia sud di Torino.
Sono madre single, lavoro come cassiera in un supermercato, e a volte anche solo respirare sembra costare troppo.
Tra l’affitto che aumenta, le bollette, la mensa scolastica e le scarpe nuove per mia figlia Sofia, mi sembra di fare calcoli mentali tutto il giorno.
Negli ultimi mesi si è aggiunto un altro peso: Gino, il nostro cane.
Gino è un cane grande, incrociato, con la testa un po’ squadrata e alcune cicatrici sulle orecchie.
L’abbiamo adottato da un rifugio durante il periodo del lockdown, quando Sofia faceva incubi ogni notte e aveva paura del buio.
All’inizio tremava a ogni rumore.
Poi, piano piano, ha iniziato a dormire ai piedi del letto di Sofia, e i suoi incubi sono diminuiti.
Ma la vita è tornata a correre più veloce di noi.
Io sono tornata al lavoro, agli orari spezzati, ai tram affollati, agli scontrini infiniti, ai clienti nervosi.
I vicini, invece, non hanno mai accettato Gino.
Nel vano scale sentivo i loro commenti sussurrati: “cane pericoloso”, “non è un cane da appartamento”, “con una bambina è irresponsabile”.
Poi è arrivata una lettera dell’amministratore, con segnalazioni sul rumore, sulla taglia del cane, sulla paura degli altri condomini.
E quella mattina, prima di andare al lavoro, ho salvato sul telefono il numero del rifugio.
Mi ero detta che nel weekend avrei chiamato.
Avevo già preparato una frase elegante: “Mi dispiace, la mia situazione è cambiata, non posso più tenerlo”.
Sofia, sei anni, non sapeva nulla.
Stringeva il collare di Gino come fosse un tesoro, e ogni sera gli raccontava segreti che io non capivo.
Quel pomeriggio, uscita dal lavoro, ero a pezzi.
Ma il cielo era limpido, e Sofia mi ha pregato di andare al parco.
— Mamma, andiamo con Gino? Per favore?
I suoi occhi brillavano di una stanchezza che conoscevo bene, quella dei bambini che sentono quando gli adulti sono altrove.
Ho ceduto.
Ho pensato che forse sarebbe stata “l’ultima passeggiata importante”, e questo pensiero mi ha punto più di quanto volessi ammettere.
Il parco era a dieci minuti a piedi, un angolo di verde tra due strade trafficate.
Si sentiva il profumo del pane caldo provenire dal forno all’angolo, le urla dei bambini si mescolavano al rumore delle auto.
Sofia è corsa verso lo scivolo, il giaccone aperto che ondeggiava come un mantello.
Gino si è seduto vicino a me, tranquillo, la lingua fuori, la coda che batteva piano.
Mi sono lasciata cadere su una panchina, telefono in mano.
Ho aperto le email: promemoria dell’affitto, una bolletta in ritardo, un messaggio della maestra che parlava della “timidezza” di Sofia negli ultimi giorni.
Tutto sembrava troppo grande per le mie spalle.
Gino è stato il primo ad accorgersi del pericolo.
Il suo corpo si è irrigidito, le orecchie dritte, lo sguardo fisso.
Mi sono voltata, infastidita.
Poi l’ho visto: un cane grande, nero, senza museruola, che correva disordinato tra gli alberi.
La sua lunga cintura strisciava a terra, tenuta a malapena da un uomo distratto, con lo sguardo inchiodato al telefono.
Il cane ha individuato qualcosa.
La sua corsa è cambiata, più bassa, più decisa.
Ho seguito il suo sguardo.
A pochi metri, ai piedi dello scivolo, c’era Sofia.
Minuscola. Immobile. Con la bambola in mano.
Il mio cuore si è bloccato.
Il cane ha accelerato, le zampe che martellavano il terreno.
— Sofia!
La mia voce ha squarciato l’aria, ma lei non sapeva da che parte correre.
Mi sono alzata di scatto, ma le gambe erano lente, come se il terreno fosse diventato sabbia.
Tutto intorno si muoveva a rallentatore.
Non ho avuto il tempo di dare un comando.
Gino mi ha strappato la cintura dalla mano con una forza che mi ha bruciato la pelle.
Ha attraversato il parco come una freccia, tutta la sua energia concentrata in quell’istante.
Si è piazzato tra Sofia e il cane nero, come un muro di muscoli e coraggio.
I due cani si sono scontrati in un boato di ringhi.
Il cane nero ha cercato di aggirarlo, ma Gino gli ha sbarrato la strada.
Ho sentito Sofia piangere.
Ho visto i denti del cane nero affondare nella spalla di Gino, poi nel suo collo.
Un dolore mi ha tagliato il petto.
Alcuni genitori gridavano, altri indietreggiavano, altri ancora tentavano di afferrare i loro figli.
Un uomo, finalmente, è riuscito ad afferrare la cintura del cane nero.
— Basta! Lascia!
La sua voce tremava.
Sono arrivata ansimando.
Sofia si era rannicchiata sotto lo scivolo, tremava come una foglia.
Gino era ancora lì, anche con il sangue che gli colava sul pelo chiaro.
Quando il cane nero è stato tirato indietro, Gino è crollato su un fianco, ansimante, ma con lo sguardo incollato a Sofia.
Mi sono inginocchiata accanto a lui, una mano sulla sua testa, l’altra tesa verso mia figlia.
Sofia si è trascinata fino a noi e ha appoggiato la sua piccola mano sul fianco ferito di Gino.
— Scusa, Gino… scusa…
Sentivo il sangue caldo sotto le dita.
Intorno a noi c’erano voci concitate, qualcuno parlava al telefono, qualcun altro si lamentava, qualcuno filmava.
Non ho guardato nessuno.
Ho chiamato un taxi e il veterinario di turno come si chiama un’ambulanza.
Il tragitto è stato infinito.
Gino era sdraiato sul sedile, la testa sulle gambe di Sofia.
Il veterinario lo ha preso subito, senza fare domande inutili.
Io e Sofia siamo rimaste in sala d’attesa, in silenzio.
Quando siamo tornate a casa, era buio.
Gino dormiva sul tappetino, fasciato, stanco, ma vivo.
Sofia si è sdraiata accanto a lui con una coperta.
Non ho avuto la forza di mandarla nel suo letto.
Mi sono seduta contro il muro, con il telefono in mano.
In cima alla lista c’era ancora il numero del rifugio.
L’ho guardato a lungo.
Poi ho alzato lo sguardo su Gino, che, anche nel sonno, sembrava vegliare su di noi.
Ho aperto un’app di social e ho iniziato a scrivere.
Ho raccontato tutto: il lockdown, Sofia, i vicini, il parco, il sangue.
E ho concluso con una frase che mi è uscita dal cuore:
«Oggi, tra urla e panico, l’unico essere che non ha esitato nemmeno un secondo a proteggere la mia bambina, mettendo il suo corpo davanti al pericolo, non è stato un eroe in divisa. È stato il cane ferito che credevo di non poter più tenere.»
Ho pubblicato.
Poi ho posato il telefono, quasi con sollievo.
La mattina dopo, centinaia di persone avevano condiviso la storia.
Molti parlavano della responsabilità dei proprietari, altri difendevano i cani dei rifugi.
Ma soprattutto c’erano parole di gratitudine per Gino.
Non ho risposto a tutti.
Mi sono girata verso Gino, che mi guardava con i suoi occhi profondi, e ho cancellato il numero del rifugio.
Al suo posto, ho salvato il contatto del veterinario con un nuovo nome:
“Guardiano dell’angelo di Sofia”.
Domani i problemi saranno ancora lì, l’affitto, le bollette, la stanchezza.
Ma una cosa è cambiata per sempre:
Gino non è più un peso da gestire.
È il miracolo che abbiamo rischiato di perdere.
E ora non è più lui a dover dimostrare di meritare la sua casa.
Sono io a dover dimostrare di meritare il suo coraggio — quel coraggio silenzioso che, in un pomeriggio qualsiasi, ha deciso che la vita di mia figlia valeva più della sua.
Passa alla 🐾 parte 2 ⏬⏬






