Il Cane Che Ha Salvato Mia Figlia e Ha Diviso un Intero Paese

Questa è la seconda parte della storia di Gino, il cane che ha salvato mia figlia.
Ed è anche la parte in cui ho scoperto che, in Italia, un post può trasformare una madre stanca in un simbolo da amare o da odiare.

La mattina dopo quella notte, il telefono ha iniziato a vibrare prima ancora della sveglia.
Notifiche, cuoricini, messaggi privati, richieste di amicizia da persone che non avevo mai visto.

La mia storia con Gino continuava a girare, rimbalzava da una bacheca all’altra come una pallina impazzita.

Ho iniziato a leggere.
C’erano commenti pieni di affetto: “Gino è un eroe”, “Onore a questo cane, merita una medaglia”.

Altri mi ringraziavano per aver adottato un cane dal rifugio, per non averlo abbandonato dopo l’incidente.

Poi, però, sono arrivati anche gli altri.
“Madre irresponsabile, cane così grande vicino a una bambina è follia pura.”

“Questi cani non dovrebbero stare nei condomini, punto.”
“Se non puoi permetterti un figlio e un cane, scegli uno dei due.”

Quelle frasi mi hanno punto più delle bollette in ritardo.
Per un attimo ho pensato di cancellare tutto, il post, il profilo, la mia voce.

Ma Gino, dal tappetino, mi guardava con quegli occhi scuri che non giudicano, non contano i soldi e non chiedono prove.

Sofia è uscita dalla sua cameretta con i capelli arruffati.
Si è inginocchiata vicino a Gino, ha controllato con estrema serietà le sue bende, come una piccola infermiera.

— Mamma, oggi devo portare una foto di famiglia a scuola. Posso portare una foto con Gino? — mi ha chiesto.

Ho sentito un nodo alla gola.
— Certo — ho risposto — se la maestra lo permette, Gino è famiglia.
Sofia ha sorriso, come se le avessi restituito qualcosa che temeva di perdere.

Al supermercato, il mio mondo si è ristretto alla cassa numero quattro, ma la storia era arrivata anche lì.

Una collega mi ha fatto l’occhiolino:
— Ho letto quello che hai scritto. Tuo cane è più coraggioso di metà delle persone che conosco.

Poco dopo, un cliente sulla cinquantina ha appoggiato il latte sul nastro e mi ha fissata a lungo.

— Lei è la ragazza del cane, vero? —
Ho annuito, tesa.

— Le dico solo questo — ha continuato — i bambini e i cani grandi non stanno bene insieme. È una bomba a orologeria. Spero che ci pensi.

Non c’era odio nella sua voce, solo paura trasformata in certezza.
Ho battuto lo scontrino, ho sorriso per educazione, ma dentro mi si è aperta una crepa.

Quando sono tornata a casa, ho trovato una busta infilata sotto la porta.
Era dell’amministratore.

“Convocazione straordinaria di condominio. Oggetto: presenza del cane Gino nell’edificio.”

Mi sono seduta sul gradino con la busta in mano.
Mi sembrava quasi ironico: il mondo mi scriveva per ringraziare Gino, e il mio palazzo si riuniva per giudicarlo.

Dentro sentivo una lotta: madre, lavoratrice, proprietaria di un cane, inquilina precaria, tutto mischiato.

La sera dell’assemblea la sala comune odorava di polvere e vecchie lamentele.
Le sedie di plastica erano disposte in cerchio, come in una terapia di gruppo in cui nessuno voleva davvero guarire.

L’amministratore ha tossito, ha sistemato i fogli e ha iniziato a parlare di “sicurezza”, “responsabilità”, “convivenza”.

— Nessuno mette in dubbio il gesto del cane — ha detto, guardandomi per un secondo — ma diversi condomini hanno espresso preoccupazione.
Una signora al piano di sopra ha alzato la mano.

— Io temo per i miei nipoti. È un cane grande, non è un peluche. E poi abbaia, fa rumore.

Avrei voluto rispondere che i suoi nipoti corrono nel corridoio alle undici di sera, che io non mi lamento perché so cosa significa essere bambini.
Invece ho respirato.

— Capisco la paura — ho detto — ma Gino non è il problema solo perché è grande. Il problema è quando le persone non educano i loro cani e non li controllano.

Un vicino che di solito non saluta nessuno ha alzato la voce.

— E il cane nero del parco? — ha detto — Quello correva libero, senza museruola, mentre il padrone guardava il telefono. Il problema non sono i cani di chi fatica a pagare l’affitto. Il problema è chi pensa di essere sopra le regole.

Nella sala è calato un silenzio strano.
Per un attimo non c’erano classi sociali, solo persone che ricordavano un pomeriggio di paura.

Qualcuno annuiva, qualcuno storceva la bocca.

Alla fine, hanno deciso di non “vietare” Gino nel condominio.
Hanno messo per iscritto che devo usare sempre il guinzaglio, l’ascensore no perché non c’è, il muso sempre vicino a me sulle scale.

In pratica, poco era cambiato sul piano pratico, ma per me significava una cosa importante: non avevano trovato il coraggio di cacciarci.

Quando sono rientrata in casa, il telefono ha squillato.
Numero sconosciuto.
Ho esitato, poi ho risposto.

— Pronto… sono il proprietario del cane nero — ha detto una voce maschile, spezzata.

Mi è mancato il fiato, come se fossi tornata a quel pomeriggio al parco.
In sottofondo si sentiva un pianto di bambino.

— Volevo solo… chiedere scusa — ha continuato — a lei, a sua figlia, al suo cane. Da quando la storia è girata, mi stanno massacrando. Mi arrivano messaggi in cui mi augurano il peggio. Alcuni dicono che il mio cane dovrebbe essere soppresso.

Mi sono appoggiata al muro.
Non avevo pensato a lui, non davvero.

Avevo pensato alla paura, al sangue, alla mia bambina, ma non a cosa significasse essere “quel proprietario”.

— Come sta il cane? — mi è uscito istintivo.

— Ha il muso graffiato, ma sta bene. Non è cattivo, lo giuro. È cresciuto con mia figlia. Quel giorno ho sbagliato io, stavo guardando il telefono… lo so. Ma adesso sembra che io sia un mostro.

Mi sono rivista in certi commenti sotto il mio post.
Gente che chiedeva “pene esemplari”, che voleva il nome e il cognome di quell’uomo, che parlava di “fare giustizia” con la rabbia negli occhi.

Mi sono chiesta se, senza volerlo, avevo acceso un fuoco più grande di me.

— Ascolti — ho detto piano — io non voglio che il suo cane venga ucciso.

Dall’altra parte c’è stato un silenzio lungo.
— Lei… non vuole denunciarci? —

Ho guardato Gino, che dormiva, la cicatrice che iniziava a tirare la pelle.

— Voglio che impariamo qualcosa, tutti — ho risposto — che i cani grandi hanno bisogno di regole, che i parchi non sono schermi per i nostri telefoni, ma luoghi pieni di bambini veri.

Lui ha tirato su col naso.
— Non merito tanta gentilezza — ha sussurrato.

— Neanch’io meritavo un cane come Gino — ho risposto — e invece ce l’ho. Forse questa è l’occasione per essere genitori migliori, non per distruggere qualcuno.

Quella sera ho aperto di nuovo l’app di social.
Ho scritto un secondo post, che ha fatto arrabbiare molti di più del primo.

“Non chiedo la testa di nessuno”, ho scritto, “né quella di un uomo distratto, né quella di un cane spaventato. Chiedo più responsabilità nei parchi, più controlli, più educazione per i cani e per i proprietari. E meno odio lanciato dallo schermo verso perfetti sconosciuti.”

Alcuni hanno applaudito.
Altri hanno commentato: “Troppo buonismo”, “Se fosse successo a mio figlio, non perdonerei nessuno”, “In Italia funziona così, chi sbaglia deve pagare”.

Ho lasciato che le parole scorressero, come pioggia sul parabrezza mentre il mondo va avanti.

Continua a leggere⏬⏬⏬⏬⏬⏬⏬⏬

Scroll to Top