Se nella prima parte Benno era un fantasma educato, adesso dovevo imparare a convivere con la cosa più spaventosa di tutte: un fantasma che ha ritrovato la voce.
Dopo quel fossato, dopo quel “BAU” arrugginito che ci aveva salvati, il silenzio di casa mia non era più una religione. Era diventato un campo di battaglia dove, ogni giorno, Benno e i suoi ricordi decidevano chi comandava.
Per una settimana restai sul divano con la gamba ingessata, il piede sollevato su due cuscini e una vergogna sottile nel petto: ero stato io a chiedergli di abbaiare, e adesso avevo paura del suo abbaio.
Sentivo i muri sottili del palazzo respirare con me, come se ogni mattone fosse un orecchio appoggiato alla mia porta. Benno mi stava vicino, ma non era più rannicchiato: mi sorvegliava, serio, con quell’aria da cane che finalmente si sente autorizzato a esistere.
All’inizio era quasi commovente. Il campanello del portone trillava, e lui scattava come un soldato richiamato alle armi, piazzandosi davanti all’ingresso con la postura fiera. Poi lanciava due abbai pieni e rotondi, e subito dopo mi guardava come per chiedere: ho fatto bene? mi lasci qui?
Io sorridevo, anche quando dentro mi si arricciava l’ansia. Gli accarezzavo la testa, sentivo il pelo ruvido sotto le dita, e dicevo piano:
«Sì, Benno. Bravo. Qui la tua voce non fa male a nessuno.»
Ma la guarigione, l’ho capito presto, non è una linea retta. È più simile a una scala ripida di un condominio vecchio: due gradini avanti e uno che scricchiola, pronto a tradirti.
La prima notte in cui abbaiò nel sonno non fu un latrato normale. Fu un suono spezzato, improvviso, come una tazza che cade e non si rompe ma ti lascia il cuore in gola.
Mi tirai su sul gomito, il gesso pesante, il fiato corto, e lo vidi: Benno tremava con gli occhi chiusi, la gola che lavorava contro un nodo invisibile, e ogni tanto quel “bau” gli scappava fuori come un singhiozzo.
Mi avvicinai lentamente, per non spaventarlo. Gli mormorai:
«Ehi… sono qui. Nessuno ti tocca. Nessuno ti punisce.»
Aprì gli occhi di colpo, disorientato, e mi fissò. Per un attimo vidi il cane di prima, quello rasente ai muri, quello che chiedeva scusa al pavimento. Poi riconobbe la stanza, il mio odore, il silenzio senza minaccia, e la sua coda fece un piccolo colpo, come un respiro trattenuto che finalmente esce.
Il mattino dopo, mentre arrancavo con le stampelle verso la cucina, sentii il rumore secco di una porta che si apriva sotto di noi. Le scale amplificarono un colpo di tosse, poi la voce della Signora Ada, pulita e precisa come il suo ottone lucido.
«Signor Elio.»
Mi bloccai. Benno, dietro di me, irrigidì le spalle.
Ada era sul pianerottolo inferiore, con una vestaglia a fiori e i bigodini che sembravano piccoli satelliti in orbita attorno alla sua testa. Non mi guardò subito negli occhi: guardò la mia gamba ingessata, poi il muso di Benno, poi il corrimano, come se cercasse un appiglio anche lei.
Fece un mezzo sospiro.
«Stanotte… l’ho sentito.»
Sentii il sangue salire alle orecchie. Prima ancora che potessi scusarmi, lei alzò una mano, come per fermare una valanga.
«Non sto dicendo che… che sia colpa sua. Sto dicendo che… l’ho sentito soffrire.»
Quelle parole mi spiazzarono più di qualsiasi rimprovero. Ada, la sacerdotessa della pace condominiale, aveva riconosciuto la sofferenza in un rumore.
Io deglutii.
«Mi dispiace. Non voleva. È… è difficile, per lui.»
Lei rimase immobile un secondo, poi fece un gesto piccolo, quasi ridicolo, come se stesse spolverando l’aria.
«Lo so.»
E se ne tornò giù, richiudendo piano. Niente sbattere, niente borbottii, niente “si sente tutto”. Solo quella parola: lo so.
Quel “lo so” mi restò addosso tutto il giorno. Ogni volta che Benno si alzava di scatto per un rumore nel vano scale, io pensavo ad Ada e mi chiedevo da quale buio venisse, anche lei, per riconoscere così bene il buio degli altri.
Nel palazzo, intanto, gli equilibri iniziavano a scricchiolare.
Il demonio del terzo piano — quello che “abbaia pure alla luna”, come aveva detto Ada — sembrava abbaiare di più, quasi offeso dal fatto che Benno avesse finalmente imparato la stessa lingua.
Era un cane piccolo, nervoso, con una voce grande, e un padrone che parlava sempre al telefono con tono stanco e arrabbiato.
Una mattina lo incrociai sulle scale. Il cane si mise a latrare all’impazzata, e Benno, invece di schiacciarsi al muro, fece una cosa nuova: si piantò fermo, guardò quel turbine di pelo e paura, e fece un singolo “bau” basso, come un punto fermo.
Il padrone del terzo piano mi guardò con una faccia che era un misto tra sorpresa e sollievo.
«Oh. Quindi il tuo… non è più muto.»
Io accennai un sorriso.
«No. Adesso parla. Sta… imparando.»
L’uomo scrollò le spalle, ma i suoi occhi si addolcirono un attimo.
«Beato lui.»
Quella frase, detta così, senza teatro, mi fece male. Perché era vera: beato lui. Beato chi trova qualcuno che lo aspetta mentre prova a diventare diverso.
Il vero problema, però, arrivò una settimana dopo, in un pomeriggio feriale, quando il palazzo era pieno di quei silenzi tesi che sanno di bucato umido e di televisori bassi.
Stavo cercando di fare la doccia con il gesso infilato in un sacchetto di plastica — una scena ridicola, degna di un film tragico-comico — quando sentii Benno irrigidirsi nel corridoio.
Poi arrivò l’odore.
Non era forte all’inizio. Era una linea sottile che tagliava l’aria: qualcosa di bruciato, di dolciastro, di sbagliato. Prima ancora che la mia testa capisse, il corpo di Benno aveva già deciso. Corse verso la porta, grattò, guaì, e poi iniziò ad abbaiare. Non due colpi di avviso. Un abbaio insistente, largo, che rimbalzava nel vano scale come una palla impazzita.
Mi avvolsi l’asciugamano alla vita, uscii zoppicando, aprii la porta e il fumo mi colpì come una mano. Saliva dal basso, una nebbiolina grigia che si infilava tra i gradini.
Benno puntava verso le scale e abbaiava, abbaiava, abbaiava. Sembrava dire: non è per me. Non è per me. È per qualcuno.
Sentii una porta aprirsi di colpo. La voce di Ada, questa volta, non era precisa. Era piena di spigoli.
«Ma che…?»
La vidi sul pianerottolo, senza vestaglia elegante, senza dignità da sacerdotessa: una donna anziana in pantofole, con gli occhi spalancati e le mani che tremavano. Dietro di lei, dall’appartamento, usciva più fumo.
Io mi gelai.
«Signora Ada!»
Lei fece un passo, poi vacillò. La mano cercò il muro, lo trovò, scivolò. Il corrimano lucido non le servì a niente. Si accasciò lentamente, come se il corpo avesse deciso di spegnersi per un istante.
Benno cambiò tono. Non fu più allarme. Fu panico puro. Si precipitò giù per due gradini, si mise accanto a lei e abbaiò così forte che mi vibrarono i denti.
Io urlai, senza nemmeno sapere a chi stessi urlando.
«Aiuto! Qualcuno!»
Le porte cominciarono ad aprirsi come occhi. Una signora del secondo uscì con la bocca piena di sonno, un ragazzo del primo scese a metà scala con il telefono in mano, il padrone del terzo piano apparve con il suo cagnetto che abbaiava per solidarietà, come se fosse un coro.
Ada respirava, ma a fatica. Gli occhi erano mezzi chiusi, e il fumo le aveva rubato il colore del viso. Io mi inginocchiai accanto a lei, sentendo la gamba ingessata protestare con un dolore sordo.
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