Il capo mi negò quattro giorni di permesso per il funerale di mio padre – quella notte mi ripresi tutto
Ero ancora sotto shock quando entrai nell’ufficio di Chiara.
L’ospedale aveva chiamato quella mattina.
Mio padre se n’era andato. Arresto cardiaco. Nessun preavviso. Solo… finito.
Varcai la porta già sapendo che avrei dovuto chiedere qualcosa che lei non voleva concedere.
Chiara, responsabile del mio reparto, era seduta dietro la sua solita scrivania enorme, a digitare sulla tastiera come se questa le avesse fatto un torto.
«Ehi», dissi, schiarendomi la voce. «Avrei bisogno di qualche giorno di permesso. Mio padre è morto stamattina. Il funerale sarà in Puglia, vicino a Bari. Mi servirebbero quattro giorni.»
Non mi guardò neanche, continuò a scrivere.
«Te ne posso dare due», disse, piatta.
Sbatté qualcosa dentro di me. «Sono nove ore di macchina solo per arrivare», mormorai.
Finalmente alzò gli occhi, ma neppure un’ombra di compassione.
«Puoi seguire tutto in collegamento video», rispose.
La fissai, convinto di aver capito male.
«Stiamo parlando di mio padre. Mi ha cresciuto da solo da quando avevo dieci anni. Non lo saluto da uno schermo.»
Chiara si appoggiò allo schienale e sospirò, come se fossi io il problema.
«Allora devi scegliere. Siamo nel pieno della migrazione Norlan. Tutti devono essere presenti.»
Quella frase mi colpì più forte del previsto.
Avevo dato tre anni a quell’azienda. Avevo costruito praticamente tutti i processi che usavano.
Turni lunghi, serate, week-end. Venivo in ufficio anche con la febbre, coprivo gli errori degli altri, rimediavo alle dimenticanze di tutti.
«Sul serio?» dissi, sentendo la voce irrigidirsi. «Non ho mai preso un giorno di malattia. Non ho mai chiesto niente.»
Lei fece solo una spallata.
«Questo è lavoro. Tutti facciamo sacrifici.»
Guardai le mie mani. Tremavano. Non per la tristezza, ma per la rabbia.
«Va bene», dissi piano. «Due giorni.»
Si voltò di nuovo verso lo schermo, come se fossi già sparito.
Uscii dal suo ufficio senza aggiungere una parola, ma la testa ronzava, il petto era stretto come se qualcuno ci avesse messo una morsa.
Feci metà corridoio verso la mia postazione, passando davanti agli stessi cubicoli grigi in cui avevo trascorso più di mille giorni.
E fu lì che qualcosa in me si ruppe. Non in modo rumoroso o teatrale. Si ruppe in silenzio, ma definitivamente.
Mi voltai un attimo.
Guardai quel corridoio come se lo vedessi per la prima volta: i sorrisi finti, gli occhi spenti, i poster sulla “collaborazione” che si staccavano dagli angoli.
Continuai a camminare, ma non verso la mia scrivania. Andai dritto verso l’uscita.
Rimasi in macchina per qualche minuto prima di salire a casa.
Le luci del parcheggio ronzavano sopra di me, come se volessero ricordarmi che avevo ancora una scelta.
Ma, in realtà, l’avevo già fatta.
Nel mio appartamento regnava il silenzio.
Posai la borsa, tolsi le scarpe e rimasi in piedi al buio.
L’orologio sul forno segnava le 23:47.
Non mi sedetti neanche. Andai in camera, mi sdraiai sul letto e fissai il soffitto, come se da lì potesse arrivare una spiegazione.
Papà era morto, e nessuno di quell’ufficio sarebbe stato presente quando lo avremmo messo sotto terra.
Alle 2:30 di notte mi alzai e aprii il portatile.
Mi collegai ai sistemi aziendali da remoto, come avevo fatto decine di volte in passato: feste comandate, domeniche, vacanze, sere in cui gli altri erano troppo stanchi o troppo comodi per risolvere problemi che riguardavano tutti.
Ma quella volta era diverso.
Andai dritto alle mie cartelle.
Non toccai dati dei clienti, né codici proprietari, né progetti che non fossero legati direttamente al mio lavoro.
Avevo il mio “tesoro” di documenti: cose che avevo costruito da zero solo per tenere in piedi il sistema, quando agli altri non interessava capire come funzionasse davvero.
Manuali di integrazione.
Schede di risoluzione problemi per i singoli clienti.
Strutture dei flussi, appunti su procedure complicate.
Avevo documentato tutto io, perché nessun altro sapeva come funzionavano davvero quei meccanismi.
C’erano tentativi sbagliati, versioni corrette, pezzi di codice ripuliti, note sui test, soluzioni pensate la sera tardi al tavolo della cucina.
Molte cose le avevo sistemate nel mio tempo libero; il resto, per coprire vuoti che nessuno aveva avuto voglia di riempire.
E ora me le riprendevo.
Mentre lavoravo, mi tornavano in mente le parole di Chiara: “Devi scegliere.”
Sì, avevo scelto.
Riunii i miei documenti, li misi in ordine, tolsi dalle cartelle condivise tutto ciò che era stato creato da me e che nessuno aveva mai voluto strutturare o salvare altrove.
Lasciai al loro posto i file realmente aziendali, i dati dei clienti, il lavoro degli altri. Quello non mi apparteneva.
Al loro posto, sui percorsi che usavano sempre, lasciai solo un breve file di testo:
Documentazione rimossa dall’autore originale. Nessuna copia di backup disponibile.
Sapevo benissimo che, sul piano formale, non era un gesto pulito.
Non era qualcosa di cui vantarsi.
Ma, in quel momento, il dolore e la rabbia parlavano più forte del buon senso, e io ero stanco di essere l’unico a prendersi sempre cura di tutti.
Alle 6:00 del mattino avevo finito.
Poi aprii una nuova mail con oggetto:
Dimissioni formali – effetto immediato
Niente discorso lungo, niente “grazie per l’opportunità”.
Due brevi paragrafi, chiari e freddi.
Allegai la lettera di dimissioni, inviai, chiusi il portatile e iniziai a fare la valigia.
Il telefono iniziò a vibrare verso le 6:30.
Probabilmente il turno del mattino aveva già notato che mancava qualcosa.
Lo spensi senza leggere i nomi.
Alle 8:10 ero in aeroporto, in fila al check-in con il cappuccio della felpa alzato e lo zaino su una spalla.
In tasca, il biglietto per Bari.
L’addetta al banco quasi non mi guardò.
Non mi importava. Per la prima volta dopo tre anni, non avevo la sensazione di fingere.
Durante l’imbarco, qualcuno dietro di me si lamentava del posto centrale, del finestrino, del bagaglio a mano.
Mi venne voglia di voltarmi e dire: «Almeno tuo padre respira ancora.»
Ma non lo feci. Continuai ad avanzare in silenzio.
Posto centrale, fila stretta, ginocchia incastrate.
Non me ne fregava niente. Stavo tornando a casa.
Guardai fuori dal finestrino mentre l’aereo decollava.
Non pensavo al lavoro, né a Chiara, né a Paolo del reparto tecnico, né a nessuno di loro.
Avevo in testa solo la cappella del paese, la vecchia scatola di latta dove papà teneva le viti, l’odore di legno e vernice nel suo garage.
Pensavo a quel fischiettare continuo mentre lavorava, come se bastasse restare occupati per tenere lontano un po’ di tristezza dal mondo.
Atterrammo poco dopo le 14:00.
Appena le ruote toccarono la pista, riaccesi il telefono.
Si illuminò come un albero di Natale.
Diciannove chiamate perse, quasi tutte da numeri dell’ufficio.
Partirono anche i messaggi vocali.
Il primo era di Paolo:
«Ehi, sono Paolo. Ci siamo accorti che mancano dei documenti… puoi richiamarmi quando atterri?»
Il secondo era di Chiara, tono teso:
«Stiamo segnalando la cosa alla direzione. Se è stato un errore, ti invito a chiarire subito.»
Il terzo mi fece quasi ridere. Ancora Paolo:
«Non è così che si comportano i professionisti.»
Sbuffai e rimisi il telefono in tasca.
Detto da uno che una volta si era dimenticato di avvisare un cliente del rinnovo automatico del contratto al doppio del prezzo…
Ritirai l’auto a noleggio, una utilitaria blu che sapeva di panino e aria stantia, e mi misi sulla statale verso l’entroterra.
Più mi allontanavo dalla città, più riuscivo a respirare.
La casa di papà era esattamente come la ricordavo:
muratura bassa, tetto spiovente, un piccolo portico con la lampadina che tremolava quando tirava vento.
Appena entrai, fui investito dal profumo di segatura, libri vecchi e caffè nero.
Era come se il tempo lì dentro si fosse fermato.
I suoi scarponi erano ancora accanto alla porta.
Una tazza di caffè, mezza piena, stava sul piano della cucina, come se fosse uscito un attimo a prendere qualcosa in garage.
Rimasi lì, con la mano appoggiata allo stipite, a respirare piano.
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