L’aula del tribunale era così silenziosa che perfino il fruscio di un foglio sembrava un rumore esagerato. La luce filtrava dalle alte finestre, tagliando l’aria polverosa come neve lenta. In fondo, le telecamere delle emittenti erano allineate, con la lucina rossa accesa, pronte a trasmettere quella che doveva essere una semplice udienza di separazione.
Ma quella mattina non aveva niente di normale.
Al banco degli attori sedeva Lorenzo Grimaldi, elegante amministratore delegato del Gruppo Grimaldi, uno di quei nomi che a Milano tutti conoscevano almeno di sfuggita. Il suo completo blu scuro era perfetto, la cravatta centrata al millimetro.
Ogni dettaglio di lui gridava controllo. Accanto, il suo avvocato gli mormorava qualcosa, ma Lorenzo lo ascoltava a metà. I suoi occhi erano fissi sulla donna dall’altra parte dell’aula.
Chiara sedeva composta al banco della difesa. I lunghi capelli castani erano raccolti in una treccia morbida, il viso pallido ma fermo. Una mano appoggiata sul ventre arrotondato, come a proteggerlo.
Nell’altra stringeva un fazzoletto ripiegato. Evitava lo sguardo di Lorenzo. Sotto la manica della camicetta, un livido appena visibile raccontava una storia che ancora nessuno aveva avuto il coraggio di dire ad alta voce.
I giornalisti bisbigliavano tra loro. La giudice non era ancora entrata, ma l’attesa era densa. Quel caso non attirava attenzione solo per il patrimonio in gioco, ma anche per le voci circolate per settimane.
Si parlava di controllo ossessivo, minacce, sparizioni improvvise dai documenti interni dell’azienda. Le prime pagine dei giornali avevano riempito le case di pettegolezzi e sospetti. Ora tutti aspettavano solo una cosa: la conferma che dietro i vetri luccicanti delle sedi del Gruppo Grimaldi c’era qualcosa di marcio.
Una porta si aprì dietro il banco della giudice.
«Tutti in piedi.»
Le sedie raschiarono sul pavimento di marmo, un suono secco che rimbalzò sulle pareti.
Il respiro di Chiara si bloccò per un istante. La giudice entrò con passo misurato, la toga nera che le scendeva morbida come un’onda. I capelli grigi raccolti in un semplice nodo sulla nuca.
Per chi guardava da fuori, era solo la giudice Elena Rinaldi, conosciuta in tutta la regione per il suo rigore e la sua imparzialità. Ma per Chiara era qualcosa di molto più profondo.
Era sua madre. La donna che l’aveva cresciuta ripetendo sempre la stessa frase: «La verità, prima o poi, trova sempre la strada per uscire alla luce.»
Lorenzo non colse la tensione che aleggiava. Si sistemò i gemelli, accennando un mezzo sorriso ironico. «Speriamo che facciano in fretta,» mormorò al suo legale.
L’udienza iniziò con le formalità di rito. Voci che si alzavano e si abbassavano, avvocati che scambiavano fascicoli, timbri che battevano sui fogli.
Ma sotto quella superficie di routine, qualcosa stava ribollendo.
L’avvocato di Chiara cominciò a fare domande sui movimenti di denaro, indicando bonifici spostati da conti cointestati a conti personali di Lorenzo. L’espressione di lui iniziò a incrinarsi.
«Sono affari dell’azienda,» sbottò. «Non c’entrano nulla con lei.»
La voce della giudice fu calma, ma tagliente. «Signor Grimaldi, avrà modo di rispondere. Ora lasci parlare il collega.» Il tono era così fermo che per un secondo Lorenzo esitò.
Ma il suo orgoglio era più forte del buonsenso. «Con tutto il rispetto, signor Presidente,» disse, «mia moglie non ha mai capito il mondo in cui vivo. Non l’ha mai capito.»
«È emotiva, irrazionale.»
Un mormorio corse tra le panche. Le macchine fotografiche iniziarono a scattare.
Chiara chiuse gli occhi per un attimo, cercando di tenere a bada il tremito. Si era promessa che non avrebbe pianto. Non quel giorno.
L’avvocato le rivolse la parola. «Signora Chiara, può descrivere che cosa è successo la sera del 14 agosto?»
Le labbra le tremarono leggermente. «Lui… si è arrabbiato. Gli ho chiesto dei soldi che mancavano dal conto.»
«Ha detto che ero ingrata. Ho provato ad andare via, ma mi ha afferrato per il braccio. E poi…»
«Bugie!» esplose Lorenzo, la voce che le tagliò le parole. «Sta mentendo.»
Il martelletto della giudice colpì il banco, secco. «Signor Grimaldi, si contenga.»
Ma lui non si contenne. Il respiro si fece più veloce, le nocche bianche strette sul tavolo. «State cercando di distruggermi,» disse fissando Chiara. «Lo fai da sempre, fai la vittima, inventi storie.»
Chiara provò a parlare, ma prima che potesse farlo, Lorenzo si alzò di scatto. La sedia stridette all’indietro. Un coro di sospiri riempì l’aula.
«Si sieda, signor Grimaldi,» ordinò la giudice Rinaldi.
Lui la ignorò. «Pensate di potermi portare via tutto?» urlò. «La mia azienda, la mia reputazione, la mia vita?»
«Credi di potertene andare e farmi passare per un mostro?» Fece due passi verso il banco di Chiara.
Gli agenti di sicurezza iniziarono a muoversi, ma troppo lentamente. In un gesto rapido, cieco, pieno di rabbia, la mano di Lorenzo partì e colpì il viso di Chiara.
Lo schiaffo risuonò come un tuono.
Un colpo secco che rimbalzò da una parete all’altra. Alcuni fogli volarono a terra. Chiara cadde di lato, portandosi la mano alla guancia.
«Ma è impazzito?» urlò il suo avvocato, balzando in piedi.
I giornalisti trattennero il fiato, poi scoppiarono in una raffica di flash. L’aula diventò caos puro. Qualcuno gridava, altri restavano immobili, paralizzati. Due agenti afferrarono Lorenzo per le braccia.
«Non toccatemi!» urlò lui, tentando di divincolarsi. «Se lo merita! Mente da mesi, a tutti!»
La mano di Chiara tremava mentre cercava di rimettersi seduta. Il segno rosso sulla guancia si faceva sempre più scuro. Gli occhi si riempirono di lacrime, ma non caddero.
Il respiro era irregolare, ma lo sguardo – calmo, ostinato – andò a cercare quello della madre.
La giudice Rinaldi si alzò lentamente dal suo scranno. Quel semplice gesto bastò a zittire l’aula.
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