Il Chirurgo in Pensione e l’Aneurisma: Un Cuore Colorato Dopo la Paura

Non sono un eroe: sono quello che ha chiuso un aneurisma e poi ha scoperto che il vero rischio cominciava dopo, quando tutti tornano a casa e la paura resta a vivere nei corridoi.

La settimana della dimissione di Maddalena, l’ospedale mi sembrava più rumoroso del solito. Non per le sirene o le barelle: per i pensieri che la gente non dice.

Sulla carta, il caso era chiuso. Un intervento riuscito, un decorso lineare, controlli programmati, istruzioni chiare. Ma chi fa questo lavoro lo sa: la cicatrice non è la fine della storia, è solo la prova che una storia c’è stata.

Il giorno dopo la dimissione mi ero promesso di non rientrare. Avevo già fatto “il mio”. Eppure, la mattina mi sono ritrovato al bar dell’atrio con un caffè in mano che non sapeva di niente.

Ho guardato verso l’ascensore delle degenze e ho capito che non era curiosità. Era una specie di dovere, ma senza uniforme. Come quando, dopo una tempesta, ti viene spontaneo controllare se il tetto regge ancora.

Sono salito.

Nel corridoio del reparto di neurochirurgia l’aria aveva quell’odore che non impari mai ad amare: disinfettante, plastica, e un filo di sonno. Una giovane infermiera mi ha riconosciuto e mi ha salutato con un sorriso stanco.

— Dottor Marangoni. Pensavo fosse sparito.

— Ci sto provando, ho risposto. Come va la stanza sette?

Lei ha fatto un cenno verso la porta chiusa, poi ha abbassato la voce.

— Va bene. Clinicamente va bene. Ma… ha chiesto di lei.

Non so perché quella frase mi abbia punto. Non era vanità. Era che, quando qualcuno “chiede”, spesso non chiede davvero una persona. Chiede un senso.

Ho bussato piano. Come se si potesse entrare in punta di piedi nella vita degli altri.

Maddalena era seduta sul letto, i capelli raccolti male, la faccia ancora un po’ vuota di sonno. Aveva una camicia da ospedale troppo larga e una coperta sulle ginocchia come una difesa. Sul comodino c’erano una bottiglietta d’acqua, un mazzo di fiori già stanchi, e un quaderno da colorare con un pennarello rosso senza tappo.

Quando mi ha visto, ha sorriso. Ma negli occhi non c’era festa. C’era quella gratitudine che fa anche male, perché ti fa capire quanto uno è stato vicino al precipizio.

— Dottore… davvero è lei.

— Sono passato a salutare. Come va la testa?

— La testa… va. È il resto che non so.

Ha indicato la sedia accanto al letto. Mi sono seduto senza fretta.

Per qualche secondo abbiamo guardato entrambi lo stesso punto, come due persone che hanno condiviso un incendio e ora cercano le parole senza bruciarsi di nuovo.

— Mia figlia è con mia sorella, ha detto. Non volevo che mi vedesse qui dentro un’altra volta.

“Un’altra volta.” Ecco dov’era la crepa: non nel corpo, ma nel tempo. Nella paura che si ripete.

— Ha paura di tornare a casa? ho chiesto.

Lei ha deglutito. Non era una donna fragile, si vedeva. Era una donna stanca di fare la forte.

— Ho paura di tutto, dottore. Ho paura di dormire e non svegliarmi. Ho paura di sentire un mal di testa e pensare che sia già finita. Ho paura di lasciare mia figlia un’ora sola. Ho paura di non riuscire più a lavorare e di perdere la casa. Ho paura che tutti mi dicano “è andata bene” e poi spariscano.

Queste frasi le ho sentite mille volte in forme diverse. Ogni paziente le mette con parole sue, ma il nucleo è sempre lo stesso: “Adesso chi mi tiene?”

Io ho appoggiato le mani sulle ginocchia. Ho sentito la vecchia tentazione di fare il medico anche fuori dalla sala, di riempire il vuoto con spiegazioni. Ma le spiegazioni, a volte, sono solo rumore elegante.

— Maddalena, le dico una cosa che non piace a nessuno, ho detto piano. Andrà bene… e non sarà facile. Le due cose possono stare insieme.

Lei ha fatto un respiro piccolo, come se finalmente qualcuno non la stesse costringendo a sorridere.

— Io non voglio fare la vittima, ha sussurrato. Però… ieri notte mi sono svegliata e mi sembrava di sentire ancora le vostre voci. E ho pensato: se mi succede qualcosa, mia figlia…

Ha lasciato la frase a metà. Non per melodramma. Per pudore.

In quel momento ho capito che la parte “umana” del caso non era finita con la clip. Era cominciata.

— Domani lei esce, ho detto. Ma non esce da sola. Le faccio parlare con la psicologa del reparto, e con l’assistente sociale. Non perché lei sia debole. Perché è normale che la paura resti attaccata, dopo.

Lei mi ha guardato, e per un secondo ho visto la vergogna: quella che abbiamo tutti quando chiediamo aiuto.

— Non posso permettermi “psicologi”, dottore. Io devo tornare alla trattoria. Devo fare i turni.

— Qui non stiamo parlando di soldi, ho risposto. Stiamo parlando di restare in piedi. E restare in piedi è un trattamento.

La parola “trattamento” ha fatto effetto. Perché quando la paura la chiami “trattamento”, diventa qualcosa che si può affrontare. Non un difetto personale.

Lei ha annuito, ma in modo incerto. Poi ha toccato il quaderno sul comodino.

— Questo… me l’ha lasciato mia figlia. Ha detto: “Mamma, quando torni, finiamo il cuore.” E ha disegnato un cuore mezzo colorato.

Ho guardato quel cuore. La metà rossa usciva dai bordi, come se la bambina non avesse voglia di stare dentro le linee. Era una cosa piccola, eppure aveva il peso delle cose vere.

— Lo finirete, ho detto.

— E se… se mi viene di nuovo?

È sempre lì, la domanda. Anche quando la scienza ha già risposto.

— Le può venire un mal di testa. Le può venire un capogiro. Le può venire la vita addosso, ho detto. Ma lei avrà un numero da chiamare, dei controlli, una rete. E soprattutto avrà un modo per distinguere la paura dalla realtà.

Lei ha cercato di sorridere. Non ci è riuscita del tutto. Però il respiro le è diventato meno stretto.

Quando sono uscito, nel corridoio ho trovato il neurologo di quel caso, quello che mi aveva detto “inoperabile”. Era appoggiato al muro con un fascicolo in mano, come se avesse passato la notte lì.

— Elio, hai un minuto? ha chiesto.

— Ce l’ho.

Mi ha fatto cenno di seguirlo fino a una piccola sala riunioni. Dentro c’erano due sedie e una luce al neon che sembrava stanca anche lei.

Ha chiuso la porta.

— Hai fatto un miracolo, ha detto senza ironia.

— No. Abbiamo lavorato bene.

Lui ha sospirato. Poi mi ha guardato come si guarda qualcuno quando si sta per chiedere una cosa difficile.

— Sai qual è la parte che mi spaventa? Non l’intervento. È l’onda dopo. Il dopo è pieno di buchi.

Ho annuito. Era un uomo lucido, e la lucidità porta anche senso di colpa.

— Abbiamo una lista lunga di pazienti che “stanno bene” e poi crollano: ansia, insonnia, attacchi di panico. E noi li salutiamo con un foglio in mano, come se bastasse.

Ha abbassato lo sguardo.

— Maddalena non ha nessuno, Elio. A parte una sorella che lavora e una bambina. Se torna al lavoro troppo presto, se si spaventa, se salta i controlli… rischiamo di perderla in un altro modo. Non per aneurisma. Per la vita.

In quel momento ho sentito quella stessa sensazione della sera prima dell’intervento: la stanza troppo illuminata che fa male ai pensieri. Solo che adesso non c’era un vaso da chiudere. C’era una persona da tenere.

— Che cosa mi stai chiedendo? ho domandato.

— Ti sto chiedendo… se ci dai una mano a costruire qualcosa. Un percorso. Una cosa piccola ma vera. Per i pazienti come lei.

Io ho sorriso, ma era un sorriso amaro.

— Sulla carta sono in pensione.

— Sulla carta, sì.

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