Ventitré bambini della scuola dell’infanzia devono la vita a un gruppo di uomini che il paese chiamava “delinquenti”, ma che quella sera sono stati gli unici adulti a buttarsi nell’acqua invece di tirare fuori il cellulare.
Io li ho visti con i miei occhi.
Stavo tornando a casa dal lavoro quando il cielo si è aperto all’improvviso. Pioggia come non ne avevo mai vista in vita mia. Più tardi avrebbero parlato di “evento eccezionale”, di quei nubifragi che succedono forse una volta ogni cent’anni.
La strada provinciale, tra i campi e le case basse della nostra pianura, si è trasformata in un fiume in pochi minuti. Le auto non hanno nemmeno fatto in tempo a uscire: l’acqua saliva, marrone e piena di fango, coprendo le ruote, poi i cofani.
Sono riuscito ad arrivare sul ponte, uno di quei ponti di cemento che attraversano il torrente Secco vicino a San Rinaldo, e lì l’ho visto.
Un pullman giallo della scuola dell’infanzia “Arcobaleno”, pieno di bambini di cinque anni, era stato spinto fuori strada dall’ondata di acqua e fango. Era bloccato di traverso contro il guardrail, già mezzo sommerso, inclinato pericolosamente mentre il livello dell’acqua continuava a salire.
Sul tetto, uscita dal portellone di emergenza, c’era la maestra, la signorina Bianchi. Gridava nel telefono, bagnata fradicia, le mani che tremavano. Ma non stava tornando dentro a prendere i bambini. Rimaneva lì, paralizzata, con lo sguardo perso.
I bambini piangevano e urlavano dietro ai vetri. L’acqua era già arrivata ai sedili.
Proprio in quel momento, alle nostre spalle, si fermarono tre fuoristrada, vecchi ma robusti, con i fari supplementari e le sirene arancioni sul tetto. Sul fianco c’era scritto:
“Lupi del Fiume – volontari di soccorso”
Li conoscevamo tutti in zona. Erano un gruppo di uomini robusti, tatuati, spesso in giubbotti di pelle nera, ex vigili del fuoco, ex militari, ex operai di fabbrica. Andavano in giro con i loro pick-up rumorosi, facevano feste fino a tardi nella sede vicino al fiume, molti li consideravano “gente poco raccomandabile”.
Ma quella sera furono gli unici a non esitare.
Scesero dai mezzi quasi di corsa. Non c’era bisogno di spiegare niente: bastava guardare il pullman inclinato, i bambini aggrappati ai finestrini, l’acqua marrone che saliva di minuto in minuto.
Il primo a muoversi fu Bruno, che tutti chiamavano “L’Orso”. Un metro e novanta, almeno centotrenta chili di muscoli e pancia, la barba scura fino al petto, le braccia coperte di tatuaggi. Una faccia di quelle che fanno cambiare marciapiede alle persone anziane.
“Santo cielo…” ho sussurrato.
Bruno non ha detto nemmeno una parola. Si è tolto il giubbotto, è rimasto con la maglietta, ha guardato l’acqua che correva sotto il ponte e ha calcolato a occhio la distanza.
Poi si è tuffato.
Un volo di cinque metri, giù nel vortice di fango e detriti.
“Fermi! Non potete!” gridava la signorina Bianchi dal tetto. “Ho chiamato il 112! Devono venire i vigili del fuoco! Non siete autorizzati ad avvicinarvi ai bambini!”
Ma Bruno stava già nuotando con fatica verso il pullman. La corrente lo tirava via di lato, cercava di strapparlo verso il centro del fiume improvvisato, ma lui avanzava lo stesso, a colpi lenti e potenti.
Nel frattempo altri tre Lupi – Nico, Salvo e Rocco – si erano legati tra loro con delle corde, fissando le estremità ai guardrail del ponte e ai loro fuoristrada. Si buttarono anche loro in acqua, uno dopo l’altro, per formare una specie di catena umana verso il pullman.
Io tremavo sul ponte. Non capivo se per il freddo, per la paura o per entrambe le cose.
“Scendiamo ad aiutarli?” mi chiese un uomo accanto a me. Ma nessuno si muoveva. Qualcuno filmava con il cellulare. Qualcuno piangeva.
L’acqua era già arrivata al petto dei bambini seduti nei posti più bassi. I più piccoli stavano in piedi sui sedili, con le manine appoggiate ai finestrini appannati. Si sentivano le loro urla persino sopra il rumore del nubifragio.
Bruno arrivò al pullman e provò ad aprire la porta anteriore. Niente, bloccata.
“Apri quella porta, per l’amor di Dio!” urlò verso la maestra sul tetto.
“Non ho le chiavi!” gridò lei. “Ce le aveva l’autista!”
L’autista non c’era. Lo avremmo scoperto dopo: era sceso per primo appena aveva visto l’acqua, era risalito di corsa sulla strada ed era scappato. Ventitré bambini chiusi dentro, e lui a casa all’asciutto.
Bruno non perse tempo a risponderle. Si spostò dietro, verso l’uscita di emergenza.
Lo vidi alzare i pugni. Uno, due, tre colpi contro il vetro di sicurezza. È fatto per non rompersi, quel vetro. Ma lui continuava a picchiare, ancora e ancora, finché le nocche non si aprirono e il sangue non iniziò a colorare l’acqua intorno a lui.
Nico, Salvo e Rocco, legati tra loro, si erano ormai piazzati lungo il fianco del pullman, formavano davvero una catena. Ogni volta che l’acqua cercava di trascinarli via, si aggrappavano alle lamiere, ai finestrini, alla mano del compagno.
Dentro, i bambini si stringevano l’uno all’altro. Alcuni pregavano come avevano visto fare in televisione: mani giunte, occhi chiusi stretti, le labbra che tremavano.
Fu allora che una bambina attaccò il viso al vetro e urlò le parole che fecero scattare qualcosa in tutti i Lupi:
“Mio fratellino è sotto l’acqua! Non si muove più! Non sa nuotare!”
La bambina si chiamava Giulia, cinque anni. Il fratellino, Luca, ne aveva tre ed era sul pullman solo perché la mamma lavorava in un supermercato fuori città e non poteva permettersi la baby-sitter. Giulia l’aveva portato con sé, di nascosto, facendolo sedere per terra tra i sedili.
Lì dove l’acqua era arrivata per prima.
Bruno tirò un ultimo pugno al vetro. Si sentì un rumore secco e l’uscita si scheggiò, si incrinò, poi cedette in mille pezzi che rimasero appiccicati alla pellicola di sicurezza.
Lui strappò via quel che restava, aprendo un varco. Le sue mani erano ormai carne viva, ma non sembrava nemmeno accorgersene.
“Passate i bambini!” ruggì verso l’interno del pullman. “Adesso!”
I piccoli iniziarono a essere spinti verso il finestrino rotto. Uno alla volta, tremanti, piangenti, venivano presi in braccio da Bruno e consegnati a Nico, poi a Salvo, poi a Rocco, poi agli altri volontari che si erano gettati in acqua nel frattempo.
Braccia enormi, tatuate, che stringevano quei corpicini come se fossero di vetro.
“Va tutto bene, amore, ci siamo noi… respira piano… ti teniamo forte…” mormorava Salvo a una bambina con le trecce che non smetteva di singhiozzare.
Sul ponte, alcune mamme che erano riuscite ad arrivare fino lì gridavano il nome dei propri figli. Un uomo in giacca e cravatta chiedeva perché non si aspettasse l’arrivo ufficiale dei soccorsi. Nessuno lo ascoltava.
L’acqua continuava a salire. Raggiunse i finestrini. Il pullman scricchiolò, si inclinò ancora di più.
Bruno sparì all’interno, nel buio marrone del pullman semisommerso. Risalì una volta, ansimando, poi andò di nuovo sott’acqua. Stava cercando Luca.
“Bruno, basta! Esci!” urlò Nico. “È troppo tardi!”
“Finché non lo trovo, non esco!” ruggì lui, prima di sparire di nuovo.
La maestra Bianchi, intanto, era ancora sul tetto, il telefono stretto all’orecchio. “Sono dei volontari, ma non so chi siano esattamente!” stava dicendo a qualcuno. “Sono tatuati, gridano, toccano i bambini… Sì, sì, mandate anche la polizia!”
“Signorina, per favore, scenda e ci aiuti!” le gridò Rocco. “Prenda i piccoli, li passi a noi!”
Lei non si mosse. Non so se fosse terrore, rigidità, paura di “fare la cosa sbagliata”. So solo che rimase lì, a urlare nel telefono, mentre l’acqua saliva e i Lupi lottavano.
Uno dopo l’altro, ventidue bambini furono passati dal finestrino rotto alla catena umana, e dalla catena umana alle braccia dei genitori, o degli sconosciuti che li issavano sul ponte.
Ventidue.
Mancava Luca.
Il pullman gemette come una bestia ferita. L’acqua entrava ormai da tutte le fessure. Alla fine, con un rumore di metallo strappato, si alzò di colpo e cominciò a rovesciarsi.
“Via tutti! Si capovolge!” urlò Nico.
I volontari si staccarono di colpo, trascinati via dalla corrente.
Del pullman non si vide più nulla.
E Bruno? Niente. Niente testa che affiora, niente braccia che si agitano.
Sentii un nodo improvviso in gola.
Poi, qualche metro più a valle, tra i vortici di acqua e rami, vidi qualcosa muoversi.
Era Rocco che trascinava qualcuno. No. Due persone.
Bruno, privo di sensi, e tra le sue braccia, stretto al petto con una forza quasi disperata, il piccolo Luca, blu in faccia, immobile.
La corrente li stava portando dritti contro un pilone di cemento del ponte. L’urto li avrebbe schiacciati.
Altri due Lupi si tuffarono senza pensarci. Salvo riuscì ad afferrare Rocco all’ultima frazione di secondo. La corda tese, sembrò sul punto di spezzarsi, ma tenne.
La catena umana si ricompose, stavolta in orizzontale, per trattenere i tre uomini e il bambino contro il pilone, mentre l’acqua cercava in tutti i modi di strapparli via.
Clicca il pulsante qui sotto per leggere la prossima parte della storia. ⏬⏬






