Non erano i freni della mia moto ad avere bisogno urgente di sistemarsi quel sabato mattina.
Era la vita di un bambino che non conoscevo ancora.
Lo hanno fatto scendere dall’auto davanti all’officina come si scarica un pacco pesante.
Una coppia sulla quarantina, cappotti eleganti, sguardi già altrove.
Il bambino portava un pigiama con i dinosauri, le ciabattine ai piedi, un peluche di drago stretto al petto.
La macchina è ripartita prima ancora che lui chiudesse lo sportello.
Io ero lì per ordinare delle pastiglie dei freni nuove per la mia moto, una grossa tourer blu che tutti chiamano “La Balena”.
Mentre discutevo con il ragazzo del banco, ho visto il piccolo piantato in mezzo al parcheggio dell’officina, in mezzo al via vai dei clienti.
Oscillava avanti e indietro, lo sguardo perso verso l’asfalto, come se non sapesse dove mettere il corpo.
La gente gli passava accanto facendo finta di niente.
Qualcuno lo scavalcava quasi con il carrello, uno gli lanciava un’occhiata, poi tornava al telefono.
Un bambino in pigiama, in un parcheggio di periferia, eppure sembrava invisibile.
Il titolare dell’officina, il signor Loris, parlava già al telefono con i carabinieri:
«Sì, c’è un bambino lasciato qui… sì, credo sia stato abbandonato… venite a prenderlo».
Io mi ero girato a guardarlo meglio.
Il bambino, a un certo punto, ha smesso di dondolarsi.
Si è voltato lentamente verso la mia moto, parcheggiata vicino all’ingresso.
L’ha fissata per qualche secondo, poi ha camminato dritto verso di lei come se tutto il resto non esistesse.
Ha appoggiato la manina sul serbatoio blu, con un gesto lento, quasi religioso.
Il metallo freddo gli ha restituito la sua stessa immagine distorta.
Con voce bassa, rauca per quanto era arrugginita, ha sussurrato:
«Bella… sembra un drago che dorme…»
Sono parole semplici. Ma Loris, che mi conosce da una vita, mi ha visto sbiancare.
Il bambino non parlava da mesi, lo avrei scoperto dopo.
Eppure a quella moto ha voluto parlare subito.
Mi chiamo Gianni, ho sessantasette anni, le mani nodose di chi ha fatto il muratore per quarant’anni e la schiena che scricchiola quando mi alzo dal letto.
Porto la barba lunga e bianca, ho le braccia tatuate – ai miei tempi ci si tatuava nei bar, non nei centri eleganti – e da più di cinquant’anni passo i weekend in sella alle moto con il mio gruppo di amici, il “Gruppo Stradale San Giorgio”.
Per molti siamo solo “quei vecchi rumorosi con le moto da teppisti”.
Il bambino non era minimamente spaventato da me.
Ignorava la mia faccia da orso, le cicatrici, i tatuaggi.
Continuava a sfiorare il logo sul serbatoio con il dito, seguendo il disegno, avanti e indietro, sempre uguale.
Sul giubbotto del pigiama gli svolazzava un foglio bianco, attaccato con del nastro di carta.
Mi sono avvicinato piano, come farei con un cane spaventato.
«Ehi, campione…» ho detto, con la voce più bassa che avevo. «Bel drago che hai in braccio.»
Non mi ha guardato, ma ha sollevato il peluche verso di me, come a presentarmelo.
«Si chiama Nerodrago» ha mormorato. «Viene da un cartone. Non brucia le case. Protegge.»
Così.
Con calma, chiaro.
Non era muto.
Era chiuso, come certi portoni vecchi che si aprono solo con la chiave giusta.
Ho staccato delicatamente il foglio dal suo giubbotto.
C’era scritto, con una grafia sbrigativa:
“Si chiama Marco. Autismo grave. Non parla quasi mai. Scatti di rabbia ingestibili. Non ce la facciamo più. Scusate.”
Nessuna firma.
Nessun numero.
Solo quella frase: “Non ce la facciamo più.”
Ho sentito qualcosa stringersi nello stomaco.
Marco nel frattempo continuava a seguire il profilo della mia moto, mormorando parole che non capivo, un suo linguaggio segreto.
Mi sono inginocchiato accanto a lui, le ginocchia che protestavano.
«Marco, vero?» ho chiesto dolcemente.
Lui ha annuito appena, senza distogliere gli occhi dalla moto.
«Ti piace il drago blu?»
Ha smesso di dondolarsi.
Per la prima volta ha sollevato lo sguardo su di me.
Aveva occhi verdi, lucidi, pieni di una luce che molti adulti non vedevano, troppo impegnati a etichettarlo.
«Posso… salire?»
Era un soffio di voce, ma era chiarissimo.
«Se ti va, sì» ho risposto. «Ma solo se ti siedi bene e tieni forte il tuo Nerodrago.»
L’ho sollevato con attenzione e l’ho messo sulla sella.
La sua faccia si è trasformata.
Non era più il bambino abbandonato in pigiama in un parcheggio grigio.
Era un cavaliere su un drago blu, con un drago di peluche come scudiero.
Ha iniziato a fare il rumore del motore con la bocca, un “vrrrrr” basso e regolare, mentre sollevava il peluche verso il cielo.
È stato in quel momento che sono arrivati i servizi sociali.
Una donna sulla cinquantina, capelli legati in uno chignon un po’ disordinato, tailleur grigio.
Teneva in mano una cartellina piena di fogli.
Il tesserino appuntato recitava: “Dott.ssa Rinaldi – Servizio Tutela Minori”.
«Il bambino abbandonato dov’è?» ha chiesto di fretta.
Ho fatto un cenno verso la moto.
Marco, sentendo una voce nuova, si è irrigidito.
La donna si è avvicinata.
«Marco Rossi? Sono qui per portarti in una comunità temporanea.»
La parola “comunità” è scattata nell’aria come un colpo di frusta.
Marco ha lasciato andare il peluche, si è aggrappato ai manubri e ha iniziato a urlare.
Non erano parole, erano suoni di terrore puro.
«No! No no no no! Drago resta! Drago resta!»
La moto tremava insieme a lui.
La dottoressa si è fermata, visibilmente in difficoltà.
«È spesso così?» ho chiesto, tenendo una mano sospesa, senza toccarlo ancora.
«Ha crisi violente» ha risposto la donna, difensiva. «Le famiglie affidatarie non riescono a gestirle.»
Ho appoggiato la mano sulla sua schiena, piano, con la stessa attenzione con cui si posano le dita su un vetro sottile.
«Marco, senti come respira il drago» gli ho sussurrato. «Lento. Dentro… fuori… dentro… fuori… Facciamo come lui, va bene?»
Ho inspirato profondamente, poi ho buttato fuori l’aria rumorosamente.
Lui, tra un singhiozzo e l’altro, ha provato a imitarmi.
Due respiri scoordinati, poi tre un po’ più uguali, poi quattro.
Piano piano, il suo corpo ha smesso di scuotersi come una foglia al vento.
La dottoressa mi guardava come se avesse visto un trucco di magia.
«Come ha fatto?»
«Non è magia. È che nessuno gli ha dato il tempo giusto» ho risposto, un po’ più secco di quanto volessi.
«Signor…?»
«Gianni Ferretti.»
«Signor Ferretti, ora devo portare Marco in una struttura. È la procedura. Non possiamo lasciarlo in un parcheggio con uno sconosciuto.»
«Con uno sconosciuto, no» ho concordato. «Ma con me, sì.»
Ha aggrottato la fronte.
«In che senso?»
Le parole mi sono uscita da sole, senza passare dal cervello.
«Lo porto a casa mia.»
Marco aveva gli occhi fissi su di me, come se aspettasse una sentenza.
Io, sinceramente, non stavo pensando.
Stavo solo guardando un bambino che aveva trovato l’unica cosa che lo calmava – una moto blu – e non riuscivo ad accettare che venisse trascinato via come un pacco.
«Mi dispiace, è impossibile» ha risposto la dottoressa. «Non possiamo affidare un minore a un uomo che non conosciamo, che gira con gruppi di motociclisti… non è un ambiente considerato sicuro.»
Ho riso, ma senza allegria.
Eccolo lì, il pregiudizio. Vecchi, tatuati, moto rumorose: per molti, pericolosi.
«Faccia così» ho detto, prendendo il telefono dalla tasca. «Chiamiamo qualcuno che le spieghi che cosa è possibile e cosa no.»
Ho composto il numero di mia figlia.
«Pronto, Chiara?»
«Papà? Tutto bene?»
«Vieni subito all’officina “Loris Gomme” con la tua cartellina. E porta la tua faccia da avvocato, quella che spaventa i giudici.»
«Papà, che è successo?»
«Te lo spiego dopo. Qui c’è un bambino che non deve salire sulla macchina sbagliata.»
Venticinque minuti dopo, Chiara è arrivata, con il suo caschetto biondo corto e l’aria decisa di chi passa le giornate nei tribunali della famiglia.
Ha visto la scena: Marco sulla mia moto, io vicino, la dottoressa Rinaldi con la cartellina in mano.
«Buongiorno» ha detto, tendendo la mano. «Sono l’avvocata Chiara Ferretti. Questo signore è mio padre. Credo che lei stia per prendere una decisione importante su questo bambino.»
«Stiamo seguendo il protocollo» ha risposto la dottoressa, un po’ sulla difensiva.
«Benissimo» ha replicato Chiara. «Allora le chiedo di verbalizzare che il minore Marco è stato lasciato in un parcheggio, con un biglietto sulla schiena, e che l’unica persona che è riuscita a calmarlo è quest’uomo, che il minore non vuole lasciare.»
Marco la guardava attraverso il manubrio, come se stesse seguendo un film sottotitolato.
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