«Marco» ha detto Chiara, abbassandosi alla sua altezza. «Ti va di stare qualche giorno con Gianni, finché i grandi sistemano le carte?»
Lui ha stretto più forte Nerodrago.
«Gianni è il capo dei draghi» ha mormorato. «Qui il drago blu. Non voglio la casa del rumore.»
La dottoressa ha esitato.
«Casa del rumore?»
Chiara ha sfogliato in fretta alcuni documenti che la donna aveva nel fascicolo.
«Negli ultimi anni è già stato spostato diverse volte» ha detto a bassa voce. «Famiglie diverse, comunità, trasferimenti improvvisi… normale che la chiami “casa del rumore”.»
Ci sono volute tre ore di telefonate, firme, mail e consulti al telefono con un giudice di turno.
Alla fine, con mille cautele, è stato redatto un foglio: affido temporaneo d’emergenza presso la mia abitazione per settantadue ore, in attesa delle verifiche.
«Avrà bisogno di un controllo sull’abitazione, di referenze, di un certificato penale» ha elencato la dottoressa.
«Faccia pure» ho detto. «Ho i muri dritti e la coscienza pure.»
Marco, sentendo che non lo stavano strappando via subito, ha appoggiato la fronte sul serbatoio della moto.
«Il drago dice che oggi dormiamo insieme» ha sussurrato.
Quella notte, Marco ha mangiato pasta al burro e parmigiano alla mia tavola, in silenzio, indicando ogni oggetto della cucina al suo peluche.
«Nerodrago dice che questa casa è calma» mormorava. «Nerodrago dice che qui non si urla. Nerodrago dice che qui il drago blu sta al caldo.»
«Nerodrago ha buon occhio» ho risposto. «Qui non si urla, no.»
Gli ho preparato il letto nella stanza degli ospiti, ma lui si è addormentato sul divano, abbracciando il peluche, con lo sguardo rivolto verso la finestra da cui si intravedeva il muso della moto.
Io sono rimasto sulla poltrona, come facevo anni fa quando mia moglie era malata: occhi semiaperti, orecchie tese.
Verso le due del mattino si è svegliato urlando.
«La casa del rumore! Non voglio! Non voglio!»
Ho avvicinato la poltrona piano, senza accendere le luci.
«Ehi, campione… senti?» ho sussurrato. «Ascolta. Non c’è nessun rumore. Solo il respiro del drago nel garage.»
Lui annaspava ancora, ma ha smesso di urlare.
«Perché mi hanno lasciato?» ha chiesto, finalmente con parole che colpivano dritte al petto.
Ho ingoiato, cercando quelle giuste.
«Non lo so» ho risposto. «A volte i grandi non sanno quanto valgono i bambini che hanno vicino. Ma questo non dice niente su di te.»
«Sette case» ha mormorato. «Sette case non volevano Marco.»
«Beh» ho detto, cercando di sorridere nel buio. «La casa numero otto è testarda. E ha un drago in garage che non molla la presa facilmente.»
Due giorni dopo, li ho portati a conoscere il mio mondo.
Il “Gruppo Stradale San Giorgio” non è quello che molti pensano.
Siamo una banda di uomini e donne tra i cinquanta e i settantacinque anni, ex muratori, ex infermiere, ex maestre, ex tutto.
Le nostre moto non sono nuove, ma lucidate con cura.
Una volta al mese facciamo giri per portare pizze e regali ai bambini di una casa famiglia, un’altra volta accompagniamo una staffetta per la raccolta fondi della parrocchia.
Ma per chi ci guarda da lontano, siamo solo caschi neri, giubbotti di pelle, barbe e rumore.
Quella domenica, quando siamo arrivati al capannone dove ci troviamo di solito, una ventina di moto erano già in fila.
Marco scendeva dalla mia moto con cautela, come uno che scende da un animale gigante.
Appena ha visto le altre, ha sgranato gli occhi.
«Famiglia di draghi» ha sussurrato.
Il più grosso di noi, che tutti chiamano “Orso” per via della stazza e della barba, si è avvicinato sorridendo.
Vista da fuori, la sua faccia poteva spaventare.
Vista da dentro, io sapevo che era capace di passare ore a insegnare l’alfabeto al nipotino.
«Questo chi è?» ha chiesto, guardando Marco.
«È Marco» ho risposto. «Per ora è ospite. Se tutto va bene, resterà un bel po’. Parla poco con la gente, molto coi draghi.»
Marco fissava i tatuaggi sulle braccia di Orso: un serpente, un’ancora, una specie di drago fatto male da un amico quando erano giovani.
«Hai un drago sul braccio» ha constatato Marco.
Orso si è fermato, stupito di sentirlo parlare.
Poi ha riso.
«Già. Ma il tuo Nerodrago è molto più bello del mio» ha ammesso. «Vuoi vedere le altre bestie che ho disegnate addosso?»
Per un’ora, Marco è passato da un motociclista all’altro, sfiorando i tatuaggi, annusando le giacche di pelle, appoggiando la guancia ai serbatoi tiepidi.
Tutti si sono fatti piccoli e lenti per lui, come se all’improvviso avessero capito che in quella sala c’era una cosa più fragile delle loro anche.
«È uno dei nostri» ha detto a un certo punto Mimmo, il più vecchio del gruppo. «Capisce che le moto non sono solo rumore. Sono casa.»
L’ispezione a casa mia è stata quasi comica.
La dottoressa Rinaldi è arrivata il giovedì seguente, trovando otto dei miei amici in giardino che sistemavano il cancello, verniciavano la ringhiera, potavano la siepe.
«Non è necessario che facciate…» ha iniziato.
«Siamo solo amici» ho detto. «Le loro fedine penali sono più pulite del mio pavimento, se le interessa. Posso darle i certificati.»
Mi ha guardato incuriosita.
Ha parlato con Marco a lungo.
Quando gli ha chiesto se si sentiva al sicuro, lui ha risposto:
«Qui il drago blu non urla. Gianni non chiede a Marco di essere altro. Qui va bene essere “Marco diverso”.»
La dottoressa ha abbassato lo sguardo sulla sua cartellina, come se le lettere le dessero fastidio agli occhi.
Il vero scontro è arrivato qualche mese dopo, in tribunale.
I genitori biologici di Marco avevano perso la potestà da tempo, nessuno si era fatto più vivo.
All’improvviso, però, è spuntata una zia, una certa Carla, che sosteneva di averlo sempre cercato.
«La famiglia è famiglia» ripeteva il suo avvocato. «Un minore deve stare con i parenti di sangue, non con estranei e motociclisti pensionati.»
Chiara mi aveva preso da parte.
«Papà, è possibile che la signora abbia scoperto solo ora che Marco ha diritto ad alcune indennità» mi aveva sussurrato. «Non è detto che lo voglia per amore.»
Io ero seduto, le mani intrecciate, con la giacca migliore che avevo (che comunque sapeva di benzina).
In aula c’erano anche alcuni dei miei amici del Gruppo Stradale, vestiti come per un matrimonio, ma i giubbotti di pelle se li erano tenuti.
Marco avrebbe dovuto restare fuori con un’educatrice.
Solo che lui non è rimasto fuori.
Si è infilato in aula in silenzio, come fa l’aria da una finestra socchiusa.
Il giudice se n’è accorto quando lo ha visto avanzare, con Nerodrago in mano.
«Giovanotto, qui non si può stare» ha iniziato a dire.
Marco l’ha guardato dritto, con quegli occhi verdi che non perdono un dettaglio.
«Mi scusi, signore giudice» ha detto, sillabando bene. «Ma parlano tutti di me e nessuno mi chiede niente. Posso dire una cosa?»
In aula è calato il silenzio.
Io avevo il cuore che batteva come il motore a mille giri.
Il giudice ha esitato, poi ha annuito.
«Parla, Marco.»
«Sono stato in sette case» ha detto lui, tenendo il peluche come un microfono. «In alcune urlavano, in altre sbattevano le porte, in una c’era sempre la televisione molto forte. Dicono che Marco ha problemi. Ma a Marco fanno male i rumori forti, i cambiamenti improvvisi, le bugie.»
La zia Carla si è agitata sulla sedia.
«Io sono la zia, siamo sangue» ha protestato.
Marco si è girato verso di lei.
«Non ti ho mai vista» ha detto. «Nessuna lettera, nessun disegno, niente. Adesso arrivi quando parlano di soldi.»
L’avvocato della zia ha cercato di intervenire, ma il giudice lo ha zittito con un gesto.
«Continua, Marco» ha detto.
«Gianni non urla» ha proseguito il bambino. «Mi spiega i motori con calma. Dice che anche loro sono speciali, ognuno ha un rumore diverso. Quando mi muovo tanto, non si arrabbia. Dice: “È il tuo modo di far respirare il cervello.”»
Si è girato verso di me.
«Gianni è il capo dei draghi. Quando ho paura, mi dice di sentire il respiro del drago blu. E io mi calmo.»
Poi ha fatto una cosa che non aveva mai fatto davanti a tanta gente.
È venuto verso di me, mi ha abbracciato forte, appoggiando la testa sul mio petto come faceva da piccolo mia figlia quando si svegliava dai brutti sogni.
«Per favore» ha concluso, guardando di nuovo il giudice. «Lasciate che Marco resti con i draghi. Con il rumore giusto, non con il rumore cattivo.»
La zia Carla ha provato ancora a parlare, ma era tardi.
Quella scena non la dimenticherò mai.
Il giudice ha chiesto una breve sospensione.
Quando è rientrato, aveva gli occhi lucidi.
«In tanti anni di lavoro» ha detto lentamente, «raramente ho visto un bambino spiegare così bene i propri bisogni. La richiesta della zia viene respinta. Si dispone l’affido definitivo a favore del signor Gianni Ferretti, con avvio immediato della procedura di adozione.»
Non so cosa sia successo dopo nel dettaglio.
Ricordo solo il rumore di sedie che si spostavano, i miei amici che piangevano senza vergogna, Chiara che mi abbracciava dicendo: «Te l’avevo detto che avevi ancora un figlio da crescere.»
Sono passati alcuni anni.
Marco oggi ha tredici anni.
È sempre autistico, sempre particolare, sempre con la testa piena di draghi e motori.
Ma ha trovato il suo posto.
Smonta e rimonta carburatori meglio di tanti adulti, conosce i rumori “giusti” e quelli “sbagliati” di una moto solo appoggiando l’orecchio.
Con i miei amici del Gruppo Stradale ha un patto: niente abbracci improvvisi, niente grida vicino a lui, ma tutte le spiegazioni del mondo se vuole capire come funziona qualcosa.
La dottoressa Rinaldi, quella del primo giorno, è diventata una delle sue alleate più grandi.
Viene ogni tanto a trovarci in moto – sì, alla fine ne ha comprata una anche lei – e dice sempre che Marco le ha cambiato il modo di lavorare.
Delle famiglie che lo hanno lasciato, non parliamo quasi mai.
Quando capita, io dico solo:
«Non sapevano cosa si stavano perdendo.»
Una sera, mentre pulivamo insieme il serbatoio del drago blu, Marco ha sollevato il peluche.
«Nerodrago dice che Gianni ha salvato Marco» ha mormorato. «Ma secondo me, Marco ha salvato Gianni dalla casa vuota.»
Mi è venuto da ridere e piangere insieme.
«Direi che i draghi sono stati bravi con tutti e due» ho risposto.
Questa è la verità che ho imparato tardi, da un bambino in pigiama e da una moto blu:
la famiglia, a volte, non è quella che ti mette al mondo.
È quella che ti aspetta senza saperlo, in un parcheggio qualunque, con il motore spento ma il cuore acceso.
E per quanto la società ci giudichi dal rumore che facciamo, ci sarà sempre qualcuno che ascolta il rumore giusto:
quello di un drago che, invece di spaventare, finalmente protegge.






