Il Giorno in cui Un’Ultima Carezza Ha Cambiato Tutto dentro un Ospedale

Pensavo che la storia della signora Martina finisse quel pomeriggio, con quella luce dorata sulla sua faccia e il muso di Toto appoggiato al suo petto.

Invece, col tempo, ho capito che quello era solo l’inizio di un’altra storia, quella che nessun medico scrive mai nelle cartelle cliniche.

Nei giorni successivi, il letto della signora Martina rimase vuoto.

Ogni volta che passavo davanti alla stanza, istintivamente rallentavo il passo, come se mi aspettassi ancora di vedere il suo sorriso stanco o di sentire il ticchettio delle unghie di Toto sul pavimento.

La figlia venne qualche volta per sbrigare le ultime pratiche, salutare il personale, portare via i pochi oggetti rimasti.

Ogni volta mi stringeva la mano un po’ più a lungo del necessario.

«Mia madre non ha smesso di parlare di lei», mi disse una mattina. «Negli ultimi giorni, quando aveva male, diceva sempre: “Arriverà Paolo, e passerà un po’”.»

Non sapevo cosa rispondere.

Quando qualcuno ti affida così tanta gratitudine, hai sempre la sensazione di non meritarla del tutto.

Quella mattina le feci la domanda che mi ronzava in testa da quando avevano portato via Toto.

«E lui… come sta?»

«Chi, Toto?»

Annuii.

Lei sorrise con un’espressione dolce e malinconica insieme.

«All’inizio è stato difficile. Ha passato due giorni a girare per casa cercandola, annusando le sue pantofole, sdraiandosi davanti alla poltrona dove lei leggeva.»

Abbassò lo sguardo.

«È come se sapesse, ma allo stesso tempo non accettasse del tutto.»

Inspirai piano.

Quella sensazione la conoscevo bene.

Anche noi, quando perdiamo qualcuno, sappiamo e non accettiamo.

Viviamo in quel paradosso: la mente capisce, il cuore no.

Passarono alcune settimane.

La vita in ospedale continuò con il suo ritmo strano: sirene, risate, pianti, nascite, addii.

Eppure, ogni volta che entravo in turno, sentivo come se un pezzetto di quella stanza, di quella storia, mi seguisse.

Una sera, durante una pausa al distributore del caffè, la dottoressa si avvicinò a me.

Aveva lo sguardo di chi ha pensato troppo.

«Paolo, ti ricordi il giorno di Toto?»

«Come potrei dimenticarlo», risposi.

Si appoggiò al muro e sospirò.

«Dopo quell’episodio, ho parlato con il primario. Gli ho raccontato com’era cambiata l’atmosfera in reparto, come tutti si fossero… ammorbiditi, quel giorno.»

Mi guardò negli occhi.

«Abbiamo deciso di proporre una modifica interna al regolamento. Un protocollo per permettere, in casi selezionati, la visita degli animali ai pazienti in fase terminale.»

Rimasi senza parole.

«Vuol dire che…?»

«Vuol dire che la signora Martina, senza saperlo, ha aperto una porta per altri», disse piano. «E tu, con quella “infrazione”, hai fatto la cosa giusta.»

Sentii un nodo in gola.

Non succede spesso che in ospedale qualcuno ti dica apertamente: «Hai fatto bene» quando violi una regola per seguire il cuore.

Di solito ti limitano a dire: «Chiudiamo un occhio.»

Qualche mese dopo, in un turno di domenica, il mio telefono personale vibrò nell’armadietto.

Era un messaggio.

«Ciao, sono Laura, la figlia della signora Martina. Oggi siamo in paese per il mercato. Toto è con me. Se ti fa piacere, passiamo davanti all’ospedale a salutarla… e a salutarti.»

Mi trovò all’ingresso, durante una pausa veloce tra un paziente e l’altro.

Il cielo era coperto, ma l’aria sapeva di primavera.

Li vidi arrivare dal parcheggio: lei con una giacca chiara, lui con il passo un po’ più lento ma deciso, il muso sempre mezzo grigio e mezzo fulvo.

«Ciao, Toto», dissi, chinandomi.

Lui mi annusò, poi fece qualcosa che non mi aspettavo: appoggiò il muso sulla mia gamba, esattamente come aveva fatto sul petto della signora Martina.

Rimase fermo così qualche secondo, come se mi riconoscesse non solo l’odore, ma il ruolo.

«Ogni volta che passiamo davanti a questo posto, si ferma», raccontò Laura. «Non tira, non piange… si ferma e guarda verso l’ingresso. Come se aspettasse qualcuno.»

Lanciai un’occhiata alle finestre del reparto.

Quante storie, quante vite dietro quei vetri.

E in mezzo, un filo invisibile che collegava quel cane alle nostre corsie.

«Come se sapesse che qui ha lasciato un pezzo di sé», dissi piano.

Toto alzò lo sguardo verso di me, e per un attimo, e lo so che suona sciocco, ebbi la sensazione che volesse ringraziarmi.

Laura portava al guinzaglio anche una piccola pettorina nuova.

«L’ho fatto sterilizzare, l’ho portato dal veterinario, adesso ha le analisi a posto. E da qualche settimana lo porto a fare compagnia a un’anziana vicina di casa, che è rimasta sola.»

Sorrise.

«Sembra quasi… che abbia trovato una nuova missione.»

Mi raccontò che Toto si sdraiava ai piedi del letto della signora del piano di sotto, che ascoltava in silenzio i suoi racconti di gioventù, che stava paziente quando lei aveva bisogno di più tempo per muoversi.

«È come se avesse imparato da mia madre come si fa a stare vicino a qualcuno che soffre», disse Laura.

Quella frase mi colpì in pieno petto.

Impariamo gli uni dagli altri, pensai.

Noi dagli animali, gli animali da noi.

E nel mezzo, una specie di linguaggio muto fatto di gesti semplici.

Qualche settimana dopo, avemmo il primo caso ufficiale in reparto con il nuovo protocollo.

Un signore di settantacinque anni, ex muratore, che stava andando incontro agli ultimi giorni.

Sua moglie, imbarazzata, chiese quasi scusandosi:

«So che è una cosa strana… ma lui vorrebbe tanto rivedere il gatto.»

Mi scappò un sorriso.

«Strana? Le assicuro che abbiamo visto di peggio», risposi.

Mentre compilavamo i moduli, mi resi conto che stavo ripetendo gesti già fatti, ma questa volta senza paura di “non poterlo fare”.

C’era una procedura, un permesso, un percorso.

Dietro a ogni firma, però, io continuavo a vedere il viso di Martina e il muso di Toto sul letto.

Il giorno della visita del gatto, il clima nel reparto cambiò, proprio come era successo quel pomeriggio.

Infermieri che di solito correvano avanti e indietro si fermarono un attimo.

I pazienti nelle altre stanze alzarono la testa incuriositi.

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