«Viveva in un dormitorio a Verona,» proseguì Rinaldi piano, con una voce priva di giudizio ma piena di pesantezza. «Faceva lavori saltuari, soprattutto in cantiere. Ma era diabetico, signore. I registri del centro indicano che non comprava l’insulina da tre mesi.»
Arturo chiuse gli occhi.
Conosceva il prezzo dell’insulina. Per lui erano spiccioli. Per un uomo senza casa era una scelta tra mangiare e curarsi.
«Perché?» sussurrò.
«Secondo il responsabile del dormitorio, Davide stava mettendo da parte ogni euro,» continuò Rinaldi, sfiorando lo schermo. Sul muro apparve la foto di un registro. «Cercava di comprare un biglietto dell’autobus per Cortina. Diceva che doveva portare sua figlia, Livia, dal nonno prima di Natale. Ha detto allo staff che suo padre era un uomo duro, ma che non avrebbe mai lasciato morire di fame una bambina.»
Un singhiozzo esplose dal petto di Arturo. Era un suono grezzo, brutto.
Davide era morto risparmiando per mandare Livia da lui. Aveva sacrificato la propria vita contando su una sola cosa che Arturo aveva appena dimostrato di non avere: umanità.
«Ha smesso di curarsi per farla mangiare,» disse Rinaldi, la voce tesa. «È morto nel sonno. Lo Stato ha preso in carico la bambina, ma lei è scappata dalla casa-famiglia tre giorni fa. Ha camminato… chiesto passaggi… cercando di arrivare fin qui.»
Arturo guardò la finestra. La neve ormai faceva muro contro il vetro.
Livia era là fuori. Una bambina di otto anni che aveva visto suo padre morire, che aveva attraversato l’inferno per trovare l’unica persona che il padre le aveva descritto come un rifugio, solo per essere chiamata “randagia” e buttata nella neve.
«L’ho ucciso io,» sussurrò. «E adesso ho ucciso anche lei.»
«Abbiamo un segnale termico!» gridò un agente dall’altra parte della stanza, con una cuffia all’orecchio. «Il drone ha individuato una fonte di calore. Debole, ma c’è.»
«Dove?» ruggì Arturo, girandosi di scatto.
«A circa cinque chilometri da qui, dietro la vecchia panetteria in paese. Sembra un vicolo. Non si muove, signore.»
Arturo non aspettò neppure il cappotto. Corse fuori.
Capitolo 3: Il peso di un centesimo
Il convoglio di fuoristrada attraversò le strade del paese a tutta velocità, senza badare a semafori né segnali. Arturo sedeva davanti nel veicolo di testa, gli occhi brucianti. Pregava. Prometteva a Dio che avrebbe regalato ogni euro, ogni palazzo, ogni azione, se solo lei avesse respirato ancora.
Frenarono di colpo davanti alla vecchia panetteria. Il vicolo sul retro era buio, pieno di cumuli di neve e cassonetti stracolmi.
«Le torce!» urlò Arturo, saltando giù.
I fasci di luce tagliarono il vortice dei fiocchi. Scivolarono lungo i muri di mattoni, sui sacchi dell’immondizia, tra i ratti in fuga.
«Là!» gridò Marco.
Arturo seguì la luce.
Dietro un cassonetto verde, raggomitolata in una palla così piccola da sembrare un mucchio di stracci buttati lì, c’era Livia.
Era mezza sepolta nella neve.
Arturo scivolò sul ghiaccio, cadde in ginocchio accanto a lei. Si strappò via i guanti. Le toccò il viso. Era ghiaccio. La pelle grigia. Le labbra blu.
«Livia!» urlò Arturo. «Livia, svegliati! Il nonno è qui! Il nonno è qui!»
Lei non si mosse.
La sollevò. Era spaventosa, leggera. Solo ossa e vestiti bagnati. Mentre la tirava su, qualcosa le cadde dall’altra mano.
Una fotografia.
Era protetta da uno strato di nastro trasparente, come una plastificazione fatta in casa. Arturo la vide illuminata dalla torcia. Era una foto di lui — trent’anni più giovane — con Davide sulle spalle. Tutti e due ridevano.
Livia aveva portato quella foto in tasca.
Era la sua mappa.
Era la sua speranza.
«Medico!» urlò Arturo, stringendo il piccolo corpo ghiacciato al petto, cercando di scaldarla con il proprio calore. «Portate le coperte termiche! SUBITO!»
I soccorritori li circondarono. Cercarono di prendere la bambina per metterla sulla barella, ma Arturo non volle lasciarla finché non furono dentro l’ambulanza.
«Ipoter-mia grave,» gridò il paramedico nel microfono. «Battito lentissimo. Alziamo subito al massimo il riscaldamento. Preparate la soluzione fisiologica tiepida.»
Arturo sedette dietro, stringendole la mano piccola, già segnata dal freddo. Il viaggio verso l’ospedale fu un lampo di sirene e luci. Arturo fissava il suo petto, cercando quel minimo alzarsi e abbassarsi che significava: “Sono ancora qui”.
All’ospedale, la portarono d’urgenza in terapia intensiva pediatrica. Questa volta i medici costrinsero Arturo a restare fuori.
Le porte si chiusero davanti a lui, lasciandolo solo nel corridoio bianco.
Rimase lì in piedi, tremante, coperto di neve e sporco, con l’aria di un uomo fuori di sé.
L’uomo più ricco della zona, completamente impotente.
Una infermiera si avvicinò con cautela.
«Signor De Santis? Dobbiamo registrare la bambina. Abbiamo trovato questo nella sua tasca.»
Gli porse un foglio stropicciato e bagnato, strappato da un quaderno.
Arturo lo prese. Le sue mani tremavano così tanto che ebbe difficoltà a spiegare il foglio. La calligrafia era disordinata, scritta probabilmente da una mano che tremava per la glicemia bassa. Era la scrittura di Davide.
Livia,
se stai leggendo questo, vuol dire che io non ce l’ho fatta. Mi dispiace, piccola. Mi dispiace tanto di non essere riuscito a portarti dal nonno.
Devi andare alla casa grande sulla collina. Cerca Arturo De Santis. È tuo nonno. So che fa paura. So che urla tanto. Sembra che odi il mondo.
Ma dentro, in fondo, è solo solo. Mi ha ferito tanti anni fa, ma io l’ho perdonato. Devi dirglielo. Dagli l’orsetto d’argento. Digli che non ho mai smesso di volergli bene.
Non avere paura di lui, Livia. È famiglia. E la famiglia ti prende al volo quando cadi.
Ti vuole bene, papà.
Arturo scivolò giù lungo il muro finché non si ritrovò seduto sul pavimento. Si portò il foglio al viso, come se potesse respirare ancora un po’ di suo figlio dall’odore di carta umida.
Pianse. Pianse per gli anni buttati via nell’orgoglio. Pianse per il figlio che aveva lasciato morire di fame e di malattia. Pianse per la bambina che aveva creduto al “sogno” del padre, che il nonno fosse un uomo buono.
«Perdonami,» riuscì a dire, la voce rotta che risuonava nel corridoio vuoto. «Perdonami, Davide.»
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