Il milionario torna a casa prima del solito… e non crede ai suoi occhi

Arrivò un mattino speciale.
Durante gli esercizi in giardino, Matteo, dopo lo stretching e il lavoro di equilibrio, si fermò, respirò a fondo, poi guardò Lucia e il padre.

«Posso provare una cosa?» chiese.

«Che cosa?» domandò Lucia.

«Voglio… voglio correre da solo fino alla panchina,» disse indicando la panchina in fondo al giardino.

Lucia e Alessandro si scambiarono uno sguardo.
«Se ti senti pronto, proviamo. Ma tu ti fermi se senti troppo dolore, va bene?» disse Lucia.

Matteo annuì.
Lasciò le stampelle, fece un passo, poi un altro, traballò, ma non cadde. Dopo pochi secondi, il passo divenne più veloce. Non era una corsa vera come quella degli altri bambini, ma per lui lo era.

Raggiunse la panchina, si girò verso di loro, con il viso inondato di luce.

«Papà! Zia Lucia! Ho corso!»

Alessandro e Lucia gli andarono incontro quasi correndo anche loro.
«È incredibile, Matteo!» urlò Alessandro, sollevandolo. «Sei un leone!»

«Hai sentito le gambe?» chiese Lucia, anche lei commossa.

«Facevano un po’ male, ma era un male bello,» rispose lui. «Adesso posso giocare con gli altri bambini quasi alla pari.»

«Certo che puoi. E se ti guardano strano, tu ricordati che dentro sei più forte di tutti,» disse Lucia.

Quella sera Alessandro rimase a lungo sveglio, ripensando a tutto.
Se non fosse tornato a casa quel giorno in anticipo, se non avesse visto Matteo con lo straccio in mano, se Lucia non avesse avuto il coraggio di fare quegli esercizi… quante cose sarebbero andate perse.

Passò un altro periodo e arrivò un’altra tappa importante: la festa di fine anno della scuola dell’infanzia.
I bambini avrebbero fatto una piccola recita e una presentazione.

«Papà, sei sicuro che puoi venire?» chiese Matteo un paio di giorni prima, mentre provavano un piccolo discorso.

«Sono sicurissimo. Ho cancellato tutto. Quel giorno appartiene a te,» rispose Alessandro.

«E la mamma viene? E la zia Lucia?»

«Veniamo tutti e tre. Saremo la tua tifoseria ufficiale.»

Il giorno della festa la palestra della scuola era piena di genitori, nonni, insegnanti.
Quando toccò a Matteo, l’insegnante lo accompagnò al centro del palco.

Non aveva le stampelle.
Solo un leggero apparecchio alla gamba, quasi invisibile sotto i pantaloni eleganti.

«Mi chiamo Matteo Rinaldi,» disse con voce chiara. «Quando ero più piccolo, avevo tanta paura di camminare. Pensavo di non riuscire mai a correre. Mi vergognavo, e a volte mi sentivo diverso.»

In platea Alessandro e Giulia si tenevano per mano.
Lucia era seduta accanto a loro, con gli occhi fissi sul bambino.

«Poi ho conosciuto una persona speciale,» continuò Matteo. «Si chiama Lucia. Mi ha insegnato che quando provi e riprovi, anche se hai paura e anche se ti fa male, puoi fare cose che sembravano impossibili. E il mio papà ha imparato a guardarmi non solo come un bambino malato, ma come un piccolo guerriero.»

Ci fu un mormorio dolce nella sala.

«Oggi voglio dedicare questa piccola corsa a tre persone,» disse Matteo. «A mamma, che non mi ha mai lasciato solo. A papà, che è diventato il mio migliore amico. E a Lucia, che è la mia allenatrice del cuore.»

Poi, con un respiro profondo, Matteo fece quello che aveva promesso.
Corse da un lato all’altro del palco, con un passo ancora un po’ rigido ma sicuro, senza stampelle.

Quando si fermò, il pubblico esplose in un applauso fragoroso.
Molte persone si alzarono in piedi.

Matteo si girò verso la platea.
«Lucia, vieni qui!» chiamò.

Lucia, imbarazzata, provò a rifiutare con un gesto, ma Alessandro la spinse dolcemente.
«Vai. È il tuo momento,» disse.

Lei salì sul palco, rossa in viso, con le mani che tremavano.

«Questa è Lucia,» disse Matteo al microfono. «Non è solo la persona che lavora a casa nostra. È la persona che mi ha fatto credere di poter volare. E volevo che tutti la conosceste.»

Lucia lo abbracciò, e il pubblico si alzò di nuovo in piedi.

Dopo la festa, diversi genitori si avvicinarono ad Alessandro e Giulia per chiedere informazioni.

«Mio figlio ha problemi simili a Matteo,» disse una madre. «Dove ha imparato Lucia tutto quello che fa?»

«Il mio bambino avrebbe bisogno di qualcuno che ci creda davvero come lei crede in Matteo,» disse un altro padre.

Qualcuno lanciò un’idea.
«Perché non aprite un centro di terapia per bambini? Con Lucia responsabile. Ci sono tante famiglie che non sanno a chi rivolgersi.»

Quella notte, seduti in salotto, Alessandro e Giulia parlarono a lungo.

«Secondo te è una follia?» chiese lui.

«Che cosa?»

«Aprire un centro per bambini con difficoltà motorie. Un posto accogliente, colorato, dove ogni famiglia si senta capita. Dove Lucia possa lavorare con una squadra intera.»

Giulia lo guardò.
«Anni fa ti saresti preoccupato solo se fosse un buon investimento economico,» disse con un mezzo sorriso. «Adesso mi chiedi se può essere un buon investimento di vita.»

«E allora?» insistette lui.

«Penso che potremmo fare qualcosa di bello. Se Lucia lo vuole, io sono con voi.»

Quando parlarono a Lucia del progetto, lei non riuscì quasi a crederci.

«Un centro tutto nostro?» chiese, come se avesse paura di svegliarsi.

«Non tutto tuo,» la corresse Alessandro sorridendo. «Nostro. Ma tu saresti la responsabile della parte terapeutica, quando finirai gli studi. Possiamo cominciare in piccolo e crescere piano piano.»

«Signore, è troppo grande per me,» mormorò lei.

«Lo pensavi anche della fisioterapia con Matteo,» rispose lui. «E guarda dove siamo arrivati.»

Passarono due anni.
Lucia terminò il corso di studi, poi un ulteriore percorso di specializzazione per bambini. Matteo cresceva, correva quasi normalmente, giocava a pallone con gli amici del quartiere. Giulia e Alessandro litigavano ancora ogni tanto, ma erano una coppia viva, non più due estranei sotto lo stesso tetto.

E finalmente il giorno arrivò.

Quel mattino fu inaugurato il Centro «Luce di Speranza», in una palazzina ristrutturata in un quartiere tranquillo di Roma.
Le pareti erano colorate, i corridoi pieni di disegni fatti dai bambini.
Ci erano stanze con tappetini, attrezzi, piccoli percorsi di equilibrio, angoli con libri e giochi.

Lucia, in un camice semplice, con il suo nome e la scritta “fisioterapista pediatrica”, sembrava un’altra persona.
Più sicura, più adulta, ma con lo stesso sguardo buono.

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