Il Mio Tradimento Perfetto: Un Giorno Rubato per Tornare Figlia, Non Fuggire

«Martedì prossimo, stessa ora?» Ho riletto quel messaggio nel buio della camera come si rilegge una preghiera proibita, con il cuore che batte piano per non svegliare nessuno.

Una settimana fa avevo tradito mio marito con mia madre e, invece di sentirmi sporca, mi sentivo… piena. Questa era la parte peggiore: la felicità senza penitenza.

Il martedì è arrivato con una puntualità cattiva, di quelle che non perdonano. Alle 6:40 ero già sveglia, con il cervello acceso e il senso di colpa in stand-by, come una radio lasciata a volume basso.

Ho guardato Dario dormire, la bocca socchiusa e una ciocca di capelli in faccia, e ho pensato che nessun uomo merita di essere ingannato. Eppure io stavo già scegliendo la bugia.

In cucina, i bambini facevano il loro solito concerto: cucchiaini sul tavolo, cartone animato troppo alto, richieste impossibili. Ho preparato la merenda, ho infilato calze spaiate, ho firmato un quaderno senza leggere cosa stessi firmando. Mentre chiudevo lo zaino, mi sono accorta che tremavo io, non solo mamma.

Dario è comparso sulla soglia con la faccia di uno che ha già visto il caos e ha deciso di non combatterlo.

— Oggi come sei elegante… di nuovo Milano? — ha detto, ma senza ridere.

Il mio stomaco si è contratto come una mano.

— Sì, sì… sempre loro. — Ho cercato l’aria di chi vive per le riunioni, ma la voce mi è uscita un filo più acuta del necessario.

Dario mi ha guardata un secondo in più, di quelli che non sono accusatori ma nemmeno innocenti. Poi ha annuito.

— Ok. Ti preparo io la pasta al forno stasera, così almeno i bambini smettono di chiedere. — Ha sbadigliato. — Ma non fare troppo tardi, eh.

Quel “eh” era una carezza e una domanda insieme. E io, come una vigliacca, l’ho baciato sulla guancia e sono scappata dietro la routine.

Alle 7:15 ero in macchina, come la volta scorsa, con la stessa giacca, la stessa borsa, lo stesso teatro. Solo che stavolta non mi sentivo una ladra. Mi sentivo una professionista del furto: entravo e uscivo dalla mia vita con una precisione chirurgica.

Ho preso la strada del vecchio quartiere e, appena ho visto i palazzi ocra, mi si è sciolto qualcosa tra le costole. È incredibile come certi posti ti riconoscano prima ancora che tu parcheggi: il marciapiede storto, il portone con il citofono consumato, la tenda della signora del piano terra che si muove sempre, come se respirasse.

Al forno storico, il signore dietro il bancone mi ha guardata come si guarda una nipote che torna dopo tanto.

— Oggi niente dieta? — ha detto, e io ho riso più del necessario.

— Oggi è… una giornata speciale. — Ho indicato le paste alla crema, quelle che da piccola mi sporcavano il naso di zucchero e mi facevano sentire ricca.

Quando sono arrivata da mamma, la porta si è aperta prima ancora che io suonassi davvero. Lei era già lì, vestaglia a fiori e capelli raccolti male, con gli occhi lucidi come se avesse aspettato tutto il giorno, anche se erano appena le otto.

— Livia… — ha sussurrato come se fosse un segreto.

— Sono qui. — E dentro quella frase c’era tutto: “non sono in ufficio”, “sto mentendo”, “mi mancavi”, “ho bisogno”.

Mamma ha chiuso la porta a doppia mandata con un gesto teatrale.

— Bene. Allora oggi facciamo un crimine ancora più grave: ci sediamo senza fretta. — Ha indicato la cucina. — E niente telefonini sul tavolo.

L’ho guardata sorpresa.

— Hai fatto un corso per delinquenti?

Lei ha alzato il mento, fiera.

— Ho vissuto abbastanza per sapere che il tempo si ruba solo così.

La moka ha iniziato a gorgogliare e quel suono mi ha colpito allo stomaco come una madeleine italiana, senza bisogno di letteratura. Ho appoggiato la borsa sulla sedia e, per un attimo, mi è sembrato di tornare a quando la mia unica preoccupazione era non macchiarmi la maglia.

Abbiamo mangiato le paste con un’avidità felice, come due complici che non temono più l’arresto. Mamma ha raccontato della vicina che ora si è messa a fare yoga in salotto “per farsi vedere dalla strada”. Io le ho raccontato dei bambini che litigano anche per chi respira più forte.

Poi, mentre lei cercava lo zucchero, ho notato una cosa. Non trovava il barattolo che era sempre nello stesso posto, in alto a destra, da vent’anni. Ha aperto due sportelli, poi li ha richiusi, poi li ha riaperti con la stessa faccia. Come se la cucina, all’improvviso, non fosse più sua.

— Mamma, è qui. — Ho allungato la mano e ho preso lo zucchero senza guardare.

Lei è rimasta ferma un secondo, con un sorriso piccolo.

— Ah. Vedi? Mi sto rincretinendo. — Ha scherzato, ma la risata le è uscita corta.

Io ho fatto finta di ridere, ma mi si è chiuso qualcosa in gola. La settimana scorsa avevo notato le sue mani tremare, stavolta notavo i vuoti. E quella casa silenziosa non era solo un lusso: era un amplificatore.

Ci siamo sedute sul divano vecchio, quello che ha la stoffa un po’ ruvida e l’odore di lana pulita. Fuori, il quartiere aveva la sua vita lenta: una signora che trascinava il carrello della spesa, un motorino lontano, un cane che abbaiava a un’ombra. Dentro, c’era quel silenzio denso che mi faceva paura.

Mamma ha preso la mia mano.

— Sai cosa mi piace di te, Livia? Che quando entri qui, smetti di essere “quella che deve fare”. Torni ad essere “quella che è”.

— E tu… — ho risposto, cercando di non tremare. — Tu quando ci sono io, sembri meno… sola.

Mamma ha annuito, e per un attimo non ha scherzato.

— La solitudine è come la polvere. All’inizio non la vedi, poi ti accorgi che copre tutto. — Ha abbassato lo sguardo. — E quando arrivi tu, io… spolvero.

Mi è venuto da piangere, ma ho ingoiato. Perché piangere in quella casa era come rompere un piatto: poi il rumore resta.

— Martedì prossimo, — ha detto lei, cercando di tornare leggera, — facciamo anche la pasta fatta in casa. Così almeno il tuo povero marito capisce che le riunioni di Milano ti nutrono.

— Mamma! — ho riso, eppure il nome “mio marito” mi è entrato addosso come una spina.

Lei mi ha guardata di lato.

— Ti senti in colpa?

Ho sospirato.

— Mi sento… divisa. Come se stessi rubando tempo a loro per darlo a te. E poi mi odio perché quel tempo con te mi rende migliore con loro.

Mamma ha fatto un gesto secco, come a tagliare l’aria.

— Non è un furto, Livia. È manutenzione. — Ha indicato il mio petto. — Se si rompe questo, poi non tieni in piedi niente.

Alle 12:30 è arrivata la prima crepa nel crimine perfetto. Il mio telefono ha vibrato sul mobile, e il nome sullo schermo mi ha gelata: Dario. Mamma si è irrigidita, non con malizia ma con un’attenzione improvvisa, come se anche lei avesse paura di essere scoperta.

Ho risposto con la voce “riunione”, quella liscia e competente.

— Amore?

Dall’altra parte, una pausa.

— Dove sei? — ha chiesto lui, semplice. Troppo semplice.

Mi si è seccata la bocca.

— In pausa, fuori… — ho improvvisato. — Sono in un posto rumoroso.

— Strano. — Dario ha sospirato, e io ho sentito, dietro quel respiro, qualcosa di diverso. — Ho chiamato in ufficio stamattina per una cosa, mi hanno detto che oggi non eri prevista.

Il mondo si è fermato, come quando ti manca un gradino. Ho guardato mamma e lei, per la prima volta, non sorrideva. Aveva gli occhi grandi, pieni di una colpa antica: quella di chi si sente sempre “di troppo”.

— Dario… — ho sussurrato, e la mia voce non era più professionale.

— Non ti sto accusando, Livia. — Ha parlato piano. — Ma dimmi la verità.

Il cuore mi batteva così forte che mi sembrava di sentirlo nei denti. La bugia era lì, pronta, con la stessa facilità dell’espresso.

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