Ho quasi chiamato la polizia. Non scherzo.
Quando lavori al turno di notte – dalle 23:00 alle 07:00 – da così tanti anni, sviluppi un radar per i guai. E quando vedi un ragazzo con una felpa grigia, testa bassa, che si aggira tra le corsie alle 3:15 del mattino… beh, l’istinto ti dice di stare all’erta.
Ho 72 anni. Alla mia età dovrei essere su una panchina al parco a leggere il giornale o a guardare i cantieri, non a scaricare bancali di acqua minerale o allineare scatole di cereali in questo ipermercato aperto 24 ore alla periferia della città. Ma la vita è andata così, e la pensione da sola non basta. Quindi eccomi qui, a gestire tutto ciò che la notte trascina dentro.
Ma quel ragazzo… lui era diverso.
Lo notavo dai monitor della sicurezza. Veniva ogni martedì e giovedì, spaccando il minuto. Prendeva un cestino rosso e faceva un giro lento. Reparto ortofrutta, panetteria, scatolame. Si muoveva come se stesse misurando il mondo. Prendeva un pacco di pasta, leggeva l’etichetta come se fosse la Divina Commedia, controllava il prezzo e lo rimetteva a posto. Faceva lo stesso con lo shampoo, i biscotti, tutto. E ogni singola volta, usciva senza comprare nulla.
Dopo un mese, ero convinto che stesse studiando il posto per un furto. Alle 4 del mattino in punto, mentre si dirigeva verso l’uscita col cestino vuoto, mi sono parato davanti a lui.
«Hai camminato più chilometri tu qui dentro che metà del mio personale,» dissi, cercando di sembrare severo. «Hai intenzione di comprare qualcosa prima o poi, o sei il nostro nuovo ispettore della qualità?»
Mi aspettavo che scappasse. O che urlasse. Invece, trasalì. Alzò le mani, tremando leggermente. «Me ne vado,» disse veloce. «Non ho preso niente. Può controllare.»
Allora lo guardai. Lo guardai davvero. Non era pericoloso. Era esausto. Occhiaie scure. Labbra screpolate. Magro da far paura.
«Non sono qui per cacciarti,» dissi addolcendo la voce. «Voglio solo capire perché giri per le corsie con un cestino vuoto.»
Fissò le sue scarpe da ginnastica consumate, poi le porte scorrevoli, e sussurrò: «È per il rumore.»
Sbattei le palpebre. «Il rumore?»
Indicò fuori, verso il parcheggio buio e deserto. «Fuori è troppo silenzioso. E mi sento insicuro. Quando dormo in macchina, ogni piccolo rumore mi sveglia. Non riesco a chiudere occhio.» Deglutì a fatica.
«Ma qui dentro? Le luci… la musica alla radio… il profumo del pane che cuoce… sembra una casa. Se tengo il cestino e cammino, la gente pensa che stia solo facendo la spesa. Per quarantacinque minuti, posso fingere di non essere un senzatetto. Di essere solo uno che decide cosa cucinare per cena.»
Le sue parole mi colpirono come un pugno nello stomaco. Si chiamava Dario. Diciannove anni. Rimasto solo dopo una serie di sfortune familiari, senza una rete di sicurezza. In Italia, se perdi la residenza, diventi un fantasma: niente documenti, niente lavoro, niente medico di base. Dormiva in una vecchia utilitaria parcheggiata lontano, vergognandosi troppo per chiedere aiuto alla Caritas.
Non stava spiando il negozio. Stava cercando di sentirsi umano.
Gli dissi di aspettare un attimo. Andai alla macchinetta del caffè nell’area pausa, presi un cappuccino caldo e comprai un tramezzino dal banco frigo con i miei soldi. «Martedì e giovedì,» dissi porgendogli il sacchetto. «Ci incontriamo vicino al magazzino verso le 3:30. Cammina quanto vuoi. Se qualcuno chiede, stai aspettando tuo nonno che finisce il turno. Io sono il nonno.»
È andata avanti così per un po’. Sapete come sono gli italiani, abbiamo il cuore tenero ma facciamo finta di nulla. La signora Maria, che gestisce il forno notturno, notò che compravo un tramezzino in più due volte a settimana.
Quando capì il motivo, iniziò a mettere da parte focacce o pizzette che erano “venute male” esteticamente, ma buonissime. «Il ragazzo deve mangiare,» diceva asciugandosi le mani sul grembiule.
Poi arrivò la direttrice regionale, la Dottoressa Rinaldi. Donna tutto d’un pezzo, tailleur impeccabile, agenda elettronica sempre in mano. Una notte, trovò Dario seduto su una cassa d’acqua nel retro, che leggeva un libro di meccanica che gli avevo prestato. Mi chiamò in ufficio. Entrai pronto a consegnare il badge.
«È lui il ragazzo che dorme nella macchina grigia?» chiese. «Sì, Dottoressa,» risposi. «Se deve licenziare qualcuno, licenzi me. Gli altri hanno solo seguito il mio esempio.»
Mi guardò fissa. Non era arrabbiata. «Mio fratello ha avuto problemi simili anni fa,» disse piano. «So quanto è dura risalire quando cadi.» Aprì un cassetto. «Abbiamo bisogno di un magazziniere notturno. Ma sai come funziona la burocrazia: senza residenza non posso assumerlo regolarmente.»
Prese un biglietto da visita. «Possiedo un piccolo monolocale sopra il garage di casa mia, in campagna. È sfitto. Se lui accetta di prenderlo in affitto a canone simbolico, può spostare lì la residenza. Così lunedì firmiamo il contratto. Tu lo formi.»
Non ho mai visto un giovane lavorare con tanta grinta. Dario era instancabile. Rispettoso. Puntuale. Mise da parte ogni euro. Si iscrisse ai corsi serali.
Il mese scorso, ho messo la cravatta buona – quella dei matrimoni – e mi sono seduto su una sedia di plastica nell’aula magna di un Istituto Tecnico. Hanno chiamato il suo nome: Dario. Diploma di specializzazione in Termoidraulica. Un mestiere vero, di quelli che servono sempre.
Ha fatto un breve discorso. Non ha parlato di voti o di scuola. Ha parlato del nostro supermercato. «Quando sei povero,» ha detto al microfono, «diventi invisibile. La gente guarda attraverso di te perché fa male vederti. Ma una notte, un uomo di 72 anni che impilava scatole di pelati mi ha guardato… e mi ha reso di nuovo visibile.»
C’erano molti occhi lucidi in quella sala. Ma c’è una cosa che Dario non sa: Lui non è stato l’ultimo. Da quando lui ha trovato la sua strada, noi del turno di notte abbiamo aperto gli occhi. Notiamo la madre single che gira per le corsie per tenere il bambino al fresco d’estate, o l’anziano che si siede vicino alla farmacia solo per sentire delle voci.
Ora li vediamo. Un sorriso, un caffè offerto, una parola gentile. Dario non c’è più – ora ha la sua vita, la sua casa – ma qualcun altro c’è sempre.
Tutto perché ho smesso di giudicare un cestino vuoto… e ho fatto l’unica domanda che conta davvero:
«Tutto bene, figliolo?»
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