Il mistero del cestino vuoto: ritrovare l’umanità perduta tra le corsie silenziose del turno di notte.

Credevo che quella sera nell’aula magna, con la mia cravatta buona e gli occhi lucidi di Dario, fosse il mio gran finale. Sapete, come nei film, quando scorrono i titoli di coda e pensi che il vecchio protagonista se ne andrà verso il tramonto.

Invece, la vita reale non ha titoli di coda. Al massimo ha il bip acuto di un cartellino timbrato.

Sono passati due anni. Ne ho settantaquattro, adesso. Le ginocchia scricchiolano come le vecchie saracinesche del magazzino e la schiena, verso le cinque del mattino, sembra fatta di vetro pronto a spezzarsi. Avrei dovuto smettere. Il medico me l’ha detto, mia figlia (che chiamo solo a Natale) me l’ha detto. Ma l’affitto non smette di arrivare, e c’è qualcosa in questo acquario di luci al neon che mi tiene incollato qui.

O forse, è perché le cose sono cambiate. E non in meglio.

La Dottoressa Rinaldi è stata promossa ed è stata trasferita a Milano sei mesi fa. Al suo posto è arrivato il Dottor Bianchi. Un ragazzo di trent’anni con un Master appeso in ufficio, scarpe lucide che non hanno mai calpestato un magazzino sporco e un’ossessione per una sola parola: efficienza.

Il Dottor Bianchi non vede persone. Vede numeri. Ha fatto installare nuove telecamere, non per i ladri, ma per noi. Ha cronometrato quanto ci mette la signora Maria a infornare il pane. E, cosa peggiore, ha notato gli scontrini dei miei tramezzini e le focacce “difettose” di Maria.

«È spreco aziendale,» aveva tuonato durante la prima riunione, picchiettando su un foglio Excel. «D’ora in poi, ogni prodotto non vendibile va distrutto e registrato. Se trovo qualcuno che regala merce o consuma senza scontrino fiscale emesso prima del turno, scatterà la contestazione disciplinare.»

Il clima era diventato gelido. Non c’era più il profumo di “casa” di cui parlava Dario. C’era solo il ronzio dei frigoriferi e la paura di essere licenziati. Avevamo smesso di cercare gli invisibili. Camminavamo a testa bassa, facendo il nostro lavoro, sperando di non essere notati dal Grande Fratello digitale che Bianchi controllava dal suo tablet, probabilmente comodamente seduto a casa sua.

Poi, un martedì di novembre, sotto una pioggia che sembrava voler lavare via tutta la periferia, è arrivata lei.

Erano le 03:15. L’orario dei fantasmi.

Stavo sistemando il reparto detersivi, cercando di ignorare il dolore all’anca, quando la vidi. Non era un ragazzo con la felpa grigia. Era una donna, forse sulla sessantina, vestita in modo strano. Indossava un cappotto elegante ma logoro, scarpe col tacco di due misure diverse e un cappello di lana calato sugli occhi.

Non aveva un cestino. Trascinava una valigia. Una vecchia valigia di pelle marrone, legata con dello spago.

Si fermò davanti allo scaffale degli ammorbidenti. Non guardava i prezzi. Accarezzava i flaconi colorati come se fossero gatti. Sorrideva e parlava da sola, un sussurro continuo, incomprensibile.

Il mio radar, quello vecchio e arrugginito, scattò. Ma questa volta scattò anche la paura. Sapevo che Bianchi, nel suo zelo da nuovo sceriffo, aveva impostato degli avvisi automatici se qualcuno stazionava troppo a lungo in un reparto senza muoversi.

Mi avvicinai lentamente. «Buonasera, signora,» dissi, usando il mio tono da “nonno”. «Cerca qualcosa in particolare? Il detersivo alla lavanda è in offerta.»

Lei si voltò. Aveva occhi chiarissimi, acquosi, persi in un tempo che non era il 2024. Mi guardò, poi guardò la mia divisa rossa e sorrise radiosa.

«Oh, finalmente, capostazione!» esclamò. «Il treno per Venezia… è in ritardo? Mio marito, Gianni, mi sta aspettando a San Marco. Non posso fare tardi.»

Mi si strinse il cuore. Demenza. O forse shock. Non era una senzatetto qualunque; era una persona la cui mente aveva deciso di andare altrove, lasciando il corpo tra la corsia 4 e la corsia 5.

«Signora,» provai a dire. «Questo è un supermercato. Non ci sono treni.»

Lei rise, una risata argentina, da ragazza. «Ma che spiritoso. Sento il fischio! Devo salire.» Prese un flacone di ammorbidente blu e lo strinse al petto come se fosse un biglietto. «Dov’è il binario?»

In quel momento, l’interfono gracchiò. Il suono mi fece sobbalzare. Non era la radio. Era la voce metallica del servizio di sorveglianza remota, una novità voluta da Bianchi.

«Attenzione operatore reparto chimico. Allontanare il soggetto non pagante. La direzione segnala comportamento anomalo. Procedere all’allontanamento o chiamare le forze dell’ordine. Protocollo sicurezza livello 1.»

La donna si spaventò. Si rannicchiò contro lo scaffale, stringendo la valigia. «Chi urla? Gianni? È Gianni arrabbiato?»

Guardai la telecamera a cupola sopra la mia testa. La lucina rossa lampeggiava. Sapevo che da qualche parte, un operatore pagato per guardare schermi stava aspettando che io eseguissi l’ordine. Se non lo avessi fatto, il giorno dopo Bianchi mi avrebbe convocato. A 74 anni, perdere questo lavoro significava finire io stesso su una panchina.

Ma poi pensai a Dario. Pensai a quel cesto vuoto. Pensai che se avessi cacciato questa donna nella pioggia gelida delle tre del mattino, in quello stato, l’avrei condannata. Forse sarebbe finita sotto un’auto, o morta di freddo.

«Al diavolo il protocollo,» mormorai.

Presi la donna delicatamente sottobraccio. «Il treno è in ritardo, signora. C’è un guasto sulla linea. Ma la sala d’aspetto di prima classe è aperta.»

Lei si rilassò subito. «Oh, meno male. Sono così stanca.»

La guidai lontano dalle telecamere principali, verso il retro, nella zona di carico scarico dove c’è un “punto cieco” che noi vecchi del mestiere conosciamo bene. La feci sedere su una pila di pallet vuoti coperti da un cartone pulito.

«Maria!» sibilai verso il laboratorio del pane.

La signora Maria si affacciò, con la faccia sporca di farina. Vide la donna, vide la valigia, vide la mia faccia. Non fece domande. Tornò dentro e uscì trenta secondi dopo con una focaccia calda e un bicchiere di latte.

«Per l’attesa del treno,» disse Maria con una dolcezza che avrebbe sciolto il Dottor Bianchi, se solo avesse avuto un cuore.

La donna iniziò a mangiare con voracità, dimenticando Venezia e il marito.

Ero nei guai. Seri. Avevo nascosto una persona non autorizzata nel magazzino. Se Bianchi fosse arrivato la mattina dopo e avesse controllato i filmati del “buco” temporale in cui ero sparito, sarei stato licenziato in tronco.

Ero lì che mi torturavo le mani, guardando la pioggia battere sulla serranda del magazzino, quando il mio vecchio cellulare vibrò nella tasca.

Era un messaggio WhatsApp. Mittente: Dario. Testo: “Sono in zona per un intervento urgente a una caldaia. Passo a portarti un caffè? Ho visto che piove forte.”

Sorrisi. Dario passava spesso, anche se ora aveva una vita piena. Aveva aperto una piccola ditta con un socio. Lavorava sodo. Ma non dimenticava mai il turno di notte.

«Vieni,» risposi. «Ho un problema. Grosso.»

Dieci minuti dopo, il furgone della “Termoidraulica D.R.” si fermò nel piazzale di carico. Dario scese. Non era più il ragazzino scheletrico di due anni fa. Le spalle si erano allargate, la barba era curata, e indossava una giacca tecnica con il suo nome ricamato. Ma gli occhi erano gli stessi: attenti, profondi.

Entrò dalla porta di servizio (aveva ancora il codice, glielo avevo lasciato per le emergenze… un’altra violazione del regolamento).

Vide la donna addormentata sui pallet. Mi guardò.

«Chi è?» chiese sottovoce.

«Si crede una viaggiatrice in attesa del treno per Venezia,» sospirai. «Il sistema di sicurezza voleva che chiamassi la polizia. Non ce l’ho fatta, Dario. Ma tra tre ore arriva il direttore. Se la trova qui, sono finito. E lei… lei non so dove finirà.»

Dario si avvicinò alla donna. Si inginocchiò per vedere meglio il viso. Poi notò la valigia. Lesse un’etichetta sbiadita attaccata al manico.

«Elena,» disse. «C’è scritto Elena Morandi. Via dei Gelsomini 12.»

Si alzò e tirò fuori il suo smartphone di ultima generazione. Fece una ricerca rapida. «C’è un appello su Facebook. È scomparsa da ieri pomeriggio. Il figlio la sta cercando disperato. Ha l’Alzheimer.»

Sentii un peso enorme scivolarmi via dal petto, subito sostituito da un altro. «Dobbiamo chiamare il figlio. Ma se viene qui e fa casino, o se arrivano i carabinieri… Bianchi lo verrà a sapere. Dirà che ho trasformato il negozio in un rifugio.»

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