Il motociclista che mi ha cresciuto non era mio padre; era un meccanico sporco d’olio che mi ha trovato a dormire nel cassonetto dietro la sua officina quando avevo quattordici anni.
Lo chiamavano Mauro il Grosso, quasi un metro e novanta, barba fino al petto, le braccia piene di tatuaggi vecchi della sua vita in caserma. Avrebbe dovuto chiamare i carabinieri per quel ragazzino scappato di casa che rubava le croste del panino buttato via.
Invece, alle cinque del mattino, aprì la porta dell’officina, mi vide raggomitolato tra i sacchi della spazzatura e disse cinque parole che mi hanno salvato la vita:
«Hai fame, ragazzo? Vieni dentro.»
Ventitré anni dopo, sono in un’aula di tribunale con il mio completo su misura, e guardo il Comune cercare di portargli via l’officina perché sostiene che i motociclisti “rovinano il quartiere”.
E non ha la minima idea che l’avvocato che oggi difende quell’officina è il ragazzino buttato via che questo “motociclista degradante” ha trasformato in un professionista.
Ero scappato dalla mia quarta casa-famiglia, quella dove le mani del “padre affidatario” vagavano e la “madre” fingeva di non vedere.
Dormire dietro la “Officina Moto Mauro” mi sembrava più sicuro che passare un’altra notte in quella casa.
Vivevo per strada da tre settimane, mangiando nei cassonetti, evitando le pattuglie che mi avrebbero solo riportato dentro un sistema che mi aveva già fatto abbastanza male.
Quella prima mattina, Mauro non fece domande.
Mi mise in mano una tazza di caffè – il primo vero caffè della mia vita – e un panino fresco, preso dal suo pranzo.
«Sai tenere una chiave inglese?» mi chiese.
Scossi la testa.
«Vuoi imparare?»
Così è cominciato tutto.
Non mi chiese perché fossi nel suo cassonetto.
Non chiamò i servizi sociali.
Mi diede semplicemente da fare: piccole cose in officina, venti euro a fine giornata e una branda nello stanzino sul retro quando “per sbaglio” lasciava la porta aperta la notte.
Gli altri motociclisti iniziarono a passare più spesso, notando il ragazzino magro che sistemava gli attrezzi e spazzava il pavimento.
Avrebbero dovuto farmi paura: giacche di pelle, toppe con teschi, moto che ruggivano come temporali.
Invece, mi portavano da mangiare.
Luca, detto “Serpente”, mi insegnava la matematica usando le misure dei cilindri.
Paolo, che tutti chiamavano “Prete” anche se non lo era, mi faceva leggere ad alta voce mentre lavorava, correggendo la mia pronuncia.
La moglie di “Orso” arrivava con sacchetti di vestiti che “il figlio aveva smesso di usare”, e guarda caso mi stavano sempre a pennello.
Dopo sei mesi, Mauro finalmente chiese:
«Hai qualche altro posto dove andare, ragazzo?»
«No, signore.»
«Allora ti conviene tenere quella stanza in ordine. L’ispettore dell’ASL non ama il disordine.»
Così, semplicemente, ho avuto una casa.
Non legalmente – Mauro non poteva certo adottare un minorenne scappato di casa che tecnicamente stava nascondendo.
Ma in tutto ciò che conta davvero, è diventato mio padre.
Mise delle regole.
Dovevo andare a scuola: ogni mattina mi accompagnava con la sua grossa moto, ignorando gli sguardi degli altri genitori davanti al cancello.
Dopo le lezioni, dovevo lavorare in officina, imparare un mestiere “perché ogni uomo deve sapere usare le mani, non solo la testa”.
La domenica sera dovevo essere al ritrovo del club, dove una trentina di motociclisti mi interrogava sui compiti e giurava di “tirarmi le orecchie” se i voti scendevano.
«Sei sveglio,» mi disse una notte, trovandomi a leggere uno dei suoi contratti.
«Spaventosamente sveglio. Potresti diventare qualcosa di più di un povero cristo pieno di grasso come me.»
«Non c’è niente di male a essere come te,» risposi.
Mi arruffò i capelli.
«Lo apprezzo, ragazzo. Ma tu hai la testa per andare oltre. E noi ci assicureremo che tu lo faccia.»
Il club pagò le mie ripetizioni per il test d’ingresso all’università.
Quando entrai a Giurisprudenza con una borsa di studio, organizzarono una festa che fece vibrare tutto il quartiere.
Trenta moto parcheggiate in fila, uomini tatuati che brindavano per un tipo magro che aveva vinto un posto all’università.
Mauro pianse quel giorno, anche se diede la colpa al fumo del motore.
L’università fu uno shock culturale.
Ragazzi con case al mare e conti in banca non capivano il ragazzo che arrivava al primo giorno di lezione dietro una moto lucida, circondato da uomini con la barba.
Smettii di nominare Mauro.
Smettii di parlare di casa.
Quando il mio coinquilino mi chiese della mia famiglia, dissi che i miei genitori erano morti.
Era più semplice che spiegare che la figura paterna della mia vita era un motociclista che, in teoria, avrebbe dovuto consegnarmi ai servizi sociali.
La facoltà di legge fu ancora peggio.
Tutti parlavano di “contatti”, di “networking”, dei loro genitori avvocati, notai, professionisti.
Quando chiedevano dei miei, borbottavo qualcosa su “lavoro manuale” e cambiavo discorso.
Mauro venne alla mia laurea in giurisprudenza con l’unico completo che possedeva – comprato apposta – ma ai piedi aveva ancora gli scarponi da moto, perché le scarpe eleganti gli facevano male.
Mi vergognai quando vidi i miei colleghi fissarlo.
Quando il mio gruppo di studio chiese chi fosse, lo presentai come “un amico di famiglia”.
Lui non disse mai nulla al riguardo.
Mi abbracciò forte, mi disse che era fiero di me e fece otto ore di strada da solo per tornare a casa.
Trovai lavoro in uno studio legale importante in centro città.
Smisi di passare in officina.
Smisi di rispondere alle chiamate del club.
Mi ripetevo che stavo costruendo una vita “rispettabile”.
Una vita che non mi avrebbe mai riportato vicino a un cassonetto.
Tre mesi fa, Mauro chiamò.
«Non sto chiedendo per me,» iniziò, come faceva sempre quando in realtà aveva bisogno di aiuto.
«Però il Comune vuole chiudere l’officina. Dicono che siamo un “problema” per il quartiere, che facciamo scendere il valore delle case. Vogliono che venda a un costruttore.»
Quarant’anni.
Per quarant’anni Mauro aveva tenuto aperta quell’officina.
Per quarant’anni aveva aggiustato moto a chi non poteva permettersi i prezzi dei concessionari.
Per quarant’anni aveva, in silenzio, aiutato ragazzi come me. Poi ho scoperto che non ero né il primo né l’ultimo a trovare un letto nello stanzino sul retro.
«Prenditi un avvocato,» risposi.
«Non posso permettermene uno abbastanza bravo da combattere contro il Comune.»
Avrei dovuto offrirmi subito.
Avrei dovuto prendere la macchina e guidare giù quella stessa sera.
Invece dissi che avrei “dato un’occhiata” e chiusi, terrorizzato dall’idea che in studio scoprissero da dove venivo davvero.
Fu Jenny, la mia assistente, a svegliarmi.
Mi trovò alla scrivania, con gli occhi lucidi. Avevo appena ricevuto una foto da Serpente: l’officina con un grande cartello “IMMOBILE SOTTO SEQUESTRO” sulla porta, Mauro seduto sui gradini con la testa tra le mani.
«È l’uomo che mi ha cresciuto,» le confessai, mostrandole la foto.
«E io sono troppo vigliacco per aiutarlo perché ho paura che qui scoprano che sono solo un ragazzino di periferia che ha avuto fortuna.»
Jenny mi guardò con disgusto.
«Allora non sei l’uomo che pensavo fossi.»
Uscì lasciandomi solo con la verità su quello che ero diventato.
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