Il Pacco Sigillato: Tre Anni di Silenzio e un Venerdì per Ricominciare

Da tre anni, un pacco di Amazon sigillato giace sul mobile del nostro ingresso. Non è solo cartone. È un mausoleo.

Mi chiamo Dario, ho 46 anni. Vivo in una villetta a schiera appena fuori Bologna, dove i muri sono color terracotta e i vicini sanno sempre cosa cucini per cena.

Ma in casa nostra c’è un silenzio che nessuno osa interrompere. E c’è un’anomalia. Una scatola marrone con quel famoso sorriso stampato sul lato. È lì, sulla madia di legno scuro all’ingresso. Da 1.095 giorni esatti.

Mia moglie, Valeria, ci passa davanti ogni mattina. Quando spolvera, alza le cornici d’argento, sposta il vaso di fiori freschi, solleva il svuotatasche. Ma il pacco? Il pacco lo aggira con il panno in microfibra. Con una delicatezza quasi religiosa. Come se fosse una reliquia sacra che potrebbe sgretolarsi al minimo tocco. O esplodere.

È un patto silenzioso tra noi. Una tregua con il dolore.

L’ha ordinato Mattia. Nostro figlio. Aveva 14 anni. Era un ragazzo pieno di vita, con i capelli sempre spettinati e quella risata contagiosa che riempiva ogni angolo della casa.

Il nostro rito era sacro: venerdì sera. Pizza margherita presa dalla pizzeria all’angolo, due birre per me (una piccola per lui, “ma non dirlo alla mamma”), e la sfida a FIFA sulla PlayStation.

Lui rideva di gusto quando perdeva, e imprecava sottovoce – tale e quale a suo padre – quando vinceva. Il suo vecchio joystick aveva un difetto. Il tasto R2 si incastrava. “Papà, così non vale, non posso scattare sulla fascia!”, si lamentava scherzando. Così ne ordinò uno nuovo. Con i soldi della paghetta che aveva risparmiato per mesi.

Il pacco arrivò due giorni dopo. Due giorni dopo quel martedì mattina. Due giorni dopo che un furgone non lo vide mentre attraversava le strisce pedonali davanti a scuola. C’era quella nebbia fitta della Pianura Padana, quella che ti entra nelle ossa.

Avevo appena imparato cosa significasse essere padre, quando dovetti imparare cosa significa sopravvivere a se stessi.

Il corriere suonò al citofono. Un ragazzo giovane, con la fretta tipica di chi ha troppe consegne. “Una firma qui, per favore.” Firmai.

La mia mano si mosse per inerzia, un automatismo burocratico, mentre il mio cuore si era fermato quarantotto ore prima. Mi mise la scatola leggera in mano e risalì sul furgone. Non sapeva di avermi appena consegnato il peso del mondo.

Da allora, è lì. Immacolato. Sigillato. Pieno. Eppure, così vuoto.

Gli amici, quei pochi che hanno ancora il coraggio di venire a trovarci, a volte provano a toccarlo. “Ehi Dario, hai un pacco qui…”, iniziano a dire.

Ma poi incrociano il mio sguardo. O notano il sorriso tirato di Valeria. E ritraggono la mano. In Italia siamo bravi a parlare di tutto, ma davanti al lutto di un figlio, anche noi restiamo muti.

Appoggio le chiavi della macchina lì accanto, fingendo normalità. Ma ogni volta le mie dita tremano. Una volta, al bar, dopo il terzo caffè, un amico mi disse: “Dario, perché non lo apri e basta? È solo plastica.” Guardai il fondo della tazzina. “Perché?”

Già, perché? Per vedere cosa avremmo potuto fare? Per toccare l’ultimo regalo che si è fatto? No. Quel pacco è l’ultima cosa che ci unisce al futuro che ci è stato rubato. È un pensiero concreto, un gesto rimasto a mezz’aria. Finché resta chiuso, sigillato con quel nastro adesivo nero, è come se Mattia stesse per entrare dalla porta, buttare lo zaino a terra e urlare: “È arrivato il mio joystick?”.

Ma ieri sera è successo qualcosa. Sono rientrato tardi dal lavoro. La casa era immersa nel buio. Valeria dormiva già, o fingeva di farlo. Mi sono fermato all’ingresso, illuminato solo dalla luce arancione dei lampioni in strada. Ho fissato il pacco. E l’ho visto.

Il tempo è un ladro crudele. Non ci porta via solo le persone, ci porta via anche le prove della loro esistenza. L’etichetta di spedizione. È carta termica. Dopo tre anni di riscaldamento e raggi di sole che filtrano dalla finestra, l’inchiostro sta svanendo. Il nome “Mattia” era quasi illegibile. Solo un’ombra grigia su sfondo bianco.

Il panico mi ha assalito. Un terrore freddo, viscerale. Il suo nome stava scomparendo. Ho cercato freneticamente una penna, volevo ripassare le lettere, incidere quel nome per l’eternità, ma la mia mano tremava così tanto che non riuscivo a togliere il tappo. Sono scivolato a terra, lì, sul pavimento freddo dell’ingresso, con la schiena contro il muro, e ho pianto. Non ho urlato. Gli uomini della mia generazione non urlano. Noi ingoiamo il dolore finché non ci avvelena.

Poi ho sentito una mano calda sulla spalla. Valeria. Non ha detto nulla. Si è seduta accanto a me, sul pavimento duro. Eravamo lì, due naufraghi nel nostro stesso corridoio, a fissare una scatola che sbiadiva.

“Odio quella cosa,” sussurrò improvvisamente. La sua voce tremava. La guardai, scioccato. “È come un fantasma, Dario,” continuò, asciugandosi una lacrima con la manica del pigiama. “Tu lo guardi ogni giorno. Guardi dentro quella scatola cercando un domani che non esiste. E così facendo, non guardi me. Io sono qui. Sono viva. E mi manca da morire anche a me. Ma non posso competere con una scatola di cartone.”

Aveva ragione. Dio, se aveva ragione. Avevamo trasformato la casa in un santuario e l’ingresso in un altare. Eravamo i custodi di una vita finita, dimenticandoci di vivere la nostra.

Mi alzai. Le ginocchia scricchiolarono. Presi il pacco. Era più leggero di quanto ricordassi. “Lo apriamo?” chiese Valeria, con un filo di voce. Scossi la testa. “No.”

Se lo avessi aperto, avrei trovato solo plastica, circuiti e cavi. Oggetti freddi. Morti. Andammo insieme nella cameretta di Mattia. La porta era chiusa da mesi. L’aria all’interno era ferma, profumava ancora vagamente di libri di scuola e di quel deodorante scadente che usano i ragazzini.

Misi il pacco sigillato sopra l’armadio, nell’angolo più alto. Lontano dalla vista, ma al sicuro. Appartiene a lui. Ma non deve più sbarrare la nostra strada.

Poi feci una cosa che non facevo da tre anni. Inserii la spina della console. La piccola luce rossa divenne verde, accompagnata da quel “bip” familiare. Presi i joystick. Non quello nuovo nella scatola. Ma quelli vecchi.

Porsi a Valeria quello buono. Io presi quello rotto. Quello con il tasto R2 che si bloccava. Lo strinsi tra le mani. La plastica era consumata, lucida per l’uso. C’erano piccoli graffi sui lati.

E improvvisamente, lo sentii. Lo sentii molto più forte che guardando quel pacco all’ingresso. Qui c’erano le sue impronte digitali. Qui c’era il sudore delle sue mani, la sua rabbia per un rigore sbagliato, la sua euforia per un gol al novantesimo minuto. Non nell’oggetto perfetto e intonso. Ma in quello vecchio, usato, difettoso. La vita lascia segni. L’usura è la prova che siamo esistiti.

“Non ho idea di come si giochi,” disse Valeria, rigirando goffamente il controller tra le mani. Le lacrime le rigavano il viso, ma stava sorridendo. Un sorriso vero. “Ti insegno io,” dissi. La mia voce era ferma per la prima volta da anni.

Quella notte abbiamo giocato. Valeria ha perso miseramente, 5 a 0. Abbiamo pianto e abbiamo riso, insieme, nello stesso momento.

Il pacco è ancora sull’armadio. La scritta col nome di Mattia svanirà completamente prima o poi, e va bene così. Perché non abbiamo bisogno di un pezzo di cartone per ricordarlo. Non dobbiamo custodire ciò che sarebbe potuto essere. Dobbiamo onorare ciò che è stato.

E ogni tanto, quando il tasto R2 si blocca e il mio giocatore tira il pallone in tribuna invece che in porta, sorrido. Non è un guasto tecnico. È Mattia che mi sta prendendo in giro. E va bene così.

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