Il venerdì dopo, la casa ha fatto un suono che non sentivo da tre anni: una risata. Non era fragorosa, non era libera, ma era vera, ed è bastato per farmi capire che quella notte non era stata un’eccezione. Era una crepa nel muro, e dalle crepe entra la luce, che lo vogliamo o no.
La mattina, passando dall’ingresso, mi sono fermato per abitudine, come se il corpo cercasse ancora l’altare. La madia era nuda, quasi indecente nella sua semplicità: cornici, vaso, svuotatasche, e nient’altro.
Ho appoggiato le chiavi senza tremare, e questo mi ha spaventato più di quanto mi abbia consolato, perché un pezzo di me aveva paura che la guarigione fosse tradimento.
Valeria, invece, si muoveva per casa come se dovesse reimparare le distanze. Apriva una finestra, richiudeva una porta, sistemava un cuscino e poi si fermava, immobile, con le mani vuote, come se avesse dimenticato cosa viene dopo.
Quando i suoi occhi cadevano verso il corridoio che portava alla cameretta, li distoglieva con un gesto rapido, come si distoglie lo sguardo da una fiamma.
Non abbiamo parlato molto quel giorno. Io sono andato al lavoro con la testa piena di un “bip” verde e di quel joystick difettoso che mi aveva lasciato i palmi caldi come se avessi stretto una mano viva.
Ho visto due ragazzini uscire da scuola, zaini buttati su una spalla, e mi è venuto un vuoto in gola così improvviso che ho dovuto rallentare, accostare, respirare come si respira dopo un pugno.
La sera, quando sono rientrato, Valeria mi aspettava in cucina. Sul tavolo c’era una pizza ancora chiusa nel cartone, e due bicchieri. Mi ha guardato come si guarda qualcuno che torna da lontano.
“Non voglio che sia solo stasera,” ha detto. “Non voglio che sia un miracolo e poi basta.”
Ho annuito, ma la parola “sempre” mi bruciava in bocca. In tre anni avevamo imparato a non prometterci niente, perché le promesse, a casa nostra, avevano la cattiva abitudine di non mantenersi.
Dopo cena, Valeria ha preso in mano il joystick come se fosse una cosa fragile, e per un attimo ho rivisto Mattia: le dita veloci, le imprecazioni sottovoce, la concentrazione feroce per una partita che, per lui, valeva più di un’interrogazione.
La console si è accesa con lo stesso suono di sempre, ma questa volta non è stato un coltello; è stato un richiamo.
“Non ridere,” ha detto Valeria, mettendo male le dita sui tasti.
“Non potrei neanche se volessi,” ho risposto, e quando lei ha fatto il primo passaggio sbagliato e ha sbattuto la testa all’indietro, esasperata, il sorriso le è scappato da solo, senza permesso.
Abbiamo giocato mezz’ora. Poi un’ora. Poi, senza dircelo, ci siamo ritrovati a fare quello che facevamo prima: commentare, litigare per finta, prendersi in giro, come se la normalità fosse una lingua che ricordavamo ancora, anche se l’accento era cambiato. E quando il tasto R2 si è bloccato, come sempre, ho sentito un colpo secco nel petto, non dolore: presenza.
Quella notte ho sognato Mattia. Non come nei sogni brutti che avevo avuto per anni, quelli in cui lo rincorrevo e lui spariva nella nebbia. Era in corridoio, scalzo, con lo zaino buttato a terra, e guardava verso l’ingresso.
“È arrivato?” mi chiedeva.
Io aprivo la bocca e non usciva niente. Mi svegliavo sempre lì, sulla soglia, con la domanda appesa come un filo. Ma stavolta, nel sogno, ho visto la madia vuota. E Mattia non si è arrabbiato. Ha fatto spallucce, come se avessi spostato una sedia.
“Va bene,” ha detto, e mi ha sorriso con quella faccia da ragazzino che ti perdona senza sapere quanto ti sta salvando.
Mi sono svegliato con il cuore che batteva forte e, senza accendere luci, sono andato fino alla cameretta. La porta era socchiusa; non ricordavo di averla lasciata così. Ho spinto piano e l’odore mi ha colpito come una fotografia: carta, polvere, un deodorante dolciastro, l’eco di una vita interrotta.
Sull’armadio, nell’angolo alto, la scatola era ancora lì. Anche nel buio si intuiva il rettangolo perfetto, l’illusione del “nuovo” che non si era mai trasformato in “usato”. Ho allungato una mano, ma non l’ho toccata. Mi sono limitato a guardarla, come si guarda una persona che dorme: presente, ma irraggiungibile.
Alle mie spalle ho sentito Valeria. Era in piedi sulla soglia, il pigiama addosso, i capelli disordinati. Non aveva l’aria di chi ti sorprende; aveva l’aria di chi ti segue da tempo.
“Pensavo ti avrei trovato qui,” ha detto.
“Non volevo svegliarti.”
“Non dormivo,” ha risposto, e quella frase conteneva tre anni interi.
Siamo rimasti in silenzio. Poi Valeria ha fatto un passo dentro, guardando la stanza come se stesse entrando in una chiesa in cui aveva smesso di credere e che, improvvisamente, le mancava. Ha appoggiato la mano sul bordo della scrivania, e le dita hanno sfiorato un quaderno chiuso.
“Tra due settimane,” ha detto, senza guardarmi, “è… quel giorno.”
Non ha pronunciato la data. Non ha detto “anniversario”, non ha detto “incidente”. Ha detto “quel giorno”, come se fosse una creatura che poteva sentirci.
Ho sentito la gola chiudersi. In tre anni avevamo fatto due cose, in quella data: sopravvivere e non crollare in pubblico. Ma non avevamo mai fatto l’unica cosa che contava davvero: andare lì.
“Non ce la faccio,” ho detto, e mi sono odiato per quella confessione.
Valeria mi ha guardato, e nei suoi occhi non c’era accusa. C’era stanchezza.
“Neanche io,” ha detto. “Ma forse è per questo che dobbiamo.”
Nei giorni successivi, la casa ha cambiato ritmo. Non è diventata felice, non esageriamo, ma ha smesso di essere un museo. Valeria ha aperto una finestra in salotto e ha lasciato entrare l’aria fredda di dicembre; ho protestato, ho tossito, poi ho capito che quello era il punto: sentire qualcosa, anche il gelo.
Abbiamo ripreso a ricevere piccoli pacchi, cose banali: detersivo, una lampadina, un libro. Il citofono non era più un colpo di pistola, solo un suono. La prima volta che ho firmato una consegna mi è venuta la nausea, ma ho resistito. Il corriere mi ha sorriso distratto e se n’è andato, ignaro dei funerali che si celebravano dentro il mio petto.
Ogni venerdì abbiamo giocato. A volte in silenzio, a volte parlando di Mattia come si parla di qualcuno che è in un’altra stanza. Una sera Valeria ha detto, all’improvviso, mentre guardava lo schermo:
“Secondo te… gli manca?”
Era una domanda assurda e bellissima. Non “ci manca”, quello era ovvio. “Gli manca”: come se Mattia fosse ancora da qualche parte a sentire la mancanza di noi. Mi sono fermato con il joystick in mano, il giocatore immobile a centrocampo.
“Non lo so,” ho detto. “Ma so che… mi piace pensare che ci prenda in giro quando sbagli.”
Valeria mi ha tirato un cuscino, e per un secondo è stata la donna che avevo sposato, non solo la madre di un figlio perduto.
Poi è arrivato “quel giorno”. La mattina era identica a quella di tre anni prima, e questa coincidenza mi ha fatto infuriare: la nebbia bassa, la luce grigia, l’aria umida che ti incolla i vestiti addosso. Ho guidato senza musica, con Valeria seduta accanto e le mani intrecciate sul grembo, come se stesse pregando.
Quando siamo arrivati vicino alla scuola, ho sentito il cuore accelerare. Le strisce pedonali erano lì, bianche e fresche di vernice, come se qualcuno le avesse rifatte da poco. Per un istante mi è sembrato un insulto: il mondo che ripara se stesso mentre tu resti rotto.
Ci siamo fermati sul marciapiede. Non attraversavo quel punto da tre anni. Ho visto ragazzi passare, ridere, spingersi, correre per non arrivare tardi. Ho sentito il rumore di un motore in lontananza e il mio corpo si è irrigidito tutto insieme, come un animale.
Valeria mi ha preso la mano. Non un gesto romantico, un gesto di salvataggio.
“Respira,” ha detto.
Ho respirato. E poi, finalmente, ho guardato. Non la nebbia, non le auto. Ho guardato le strisce, il lampione, il cancello della scuola, le finestre. Ho guardato quel luogo senza cercare di scappare con la mente. E ho capito una cosa crudele: il posto non era un mostro. Il mostro era la scena che continuavo a proiettare dentro di me.
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