Non abbiamo pianto subito. Prima c’è stato il vuoto. Poi, lentamente, il corpo ha trovato il modo di ricordare. Valeria ha tirato fuori dalla borsa un piccolo mazzo di fiori, niente di scenografico, solo fiori semplici, da mercato. Li ha appoggiati vicino al palo del segnale stradale. Le sue mani tremavano.
“Ciao, amore,” ha sussurrato, e quella frase mi ha fatto crollare.
Mi sono piegato in due, con la fronte contro il suo cappotto, come se avessi quarantasei anni e allo stesso tempo quattordici. Ho pianto lì, sul marciapiede, in mezzo alla nebbia, senza vergognarmi. Non ho urlato, no. Ma non ho più ingoiato.
Quando abbiamo ripreso fiato, una donna anziana si è avvicinata lentamente. Portava una sciarpa grossa e aveva lo sguardo gentile di chi sa stare al mondo senza pretendere di aggiustarlo.
“Scusate,” ha detto piano. “Io… io vi ho riconosciuti.”
Valeria si è irrigidita. Io ho fatto per dire qualcosa, ma la voce mi è uscita spezzata.
“Siamo… sì.”
La donna ha annuito, come se non servissero spiegazioni. Ha guardato i fiori e poi noi.
“Lo vedevo spesso,” ha detto. “Aspettava sempre un amico davanti al cancello. Ridevano, facevano i cretini… come tutti. Mi dispiace.”
Quelle due parole, “come tutti”, mi hanno trafitto. Perché era questo che ci aveva rubato la vita: la normalità. La possibilità di essere “come tutti”. Ho ringraziato la donna con un cenno, incapace di altro, e lei se n’è andata senza invadere, lasciandoci lo spazio di essere distrutti con dignità.
Siamo tornati in macchina e, invece di andare subito a casa, Valeria ha detto:
“Passiamo da Andrea.”
Andrea era il migliore amico di Mattia. Non lo vedevamo da mesi, forse anni. Dopo l’incidente, le famiglie si erano sfiorate come pianeti troppo carichi di dolore: troppo facile bruciarsi.
Quando la madre di Andrea ha aperto la porta, ci ha guardati come si guarda un ricordo che fa male e, nello stesso tempo, consola.
“Entrate,” ha detto. “Andrea è in camera.”
La stanza di Andrea era diversa da quella di Mattia, eppure identica: poster, libri, disordine giovane. Andrea era diventato più alto, più magro, con la faccia da ragazzo che sta provando a diventare uomo senza sapere come. Ci ha visto e gli occhi gli si sono riempiti d’acqua, senza difese.
“Ciao,” ha detto, e si è morsicato il labbro come faceva Mattia quando cercava di non piangere.
Valeria gli si è avvicinata e, senza parlare, lo ha abbracciato. Un abbraccio lungo, imperfetto, necessario. Io sono rimasto un passo indietro, perché certi dolori non si rubano.
Andrea si è staccato e ha frugato in un cassetto della scrivania. Ne ha tirato fuori un oggetto piccolo, consumato: un portachiavi di plastica con un pallone da calcio, graffiato, la vernice saltata.
“Questo… era suo,” ha detto. “L’aveva perso a scuola. L’ho trovato io. Non ho mai avuto il coraggio di… di darvelo.”
Valeria ha preso il portachiavi come se fosse una cosa sacra. E io ho sentito, in modo netto, la differenza tra quell’oggetto e la scatola sigillata: questo era usura, vita, contatto. Questo non prometteva un futuro; testimoniava un passato.
A casa, quella sera, siamo rimasti a lungo seduti sul divano con il portachiavi tra le mani. Poi Valeria ha guardato verso il corridoio, e ho capito cosa stava pensando prima ancora che parlasse.
“Dario,” ha detto. “La scatola… non voglio che resti una cosa sospesa per sempre. Non perché dobbiamo dimenticare. Ma perché… perché io voglio che quel gesto arrivi da qualche parte.”
Ho sentito lo stomaco stringersi. Aprire quel pacco significava affrontare la banalità della plastica e accettare che Mattia non sarebbe entrato dalla porta a reclamarla. Ma forse era anche l’unico modo per far smettere alla scatola di essere una domanda.
“Saliamo,” ho detto.
Abbiamo preso una sedia e poi un’altra, ridicoli e seri come due ladri in casa propria. Valeria reggeva la sedia mentre io, con le ginocchia che scricchiolavano, allungavo le braccia fino a sfiorare il cartone. L’ho tirato giù piano, come si tira giù un’urna.
Sul tavolo della cucina, sotto la luce calda, il nastro adesivo sembrava più vecchio di me. L’etichetta era ormai quasi bianca, un fantasma di inchiostro. Ho sentito la paura risalire, ma Valeria mi ha preso la mano.
“Non lo facciamo per uccidere qualcosa,” ha detto. “Lo facciamo per liberarlo.”
Ho annuito. Ho preso un paio di forbici. Il primo taglio è stato un suono secco, definitivo, come un “basta” pronunciato finalmente ad alta voce. Ho sollevato i lembi del cartone e ho visto l’interno: imballaggio, plastica, istruzioni. Niente miracoli. Nessun messaggio nascosto. Solo un oggetto nuovo, perfetto, senza graffi.
Eppure non ho sentito il vuoto che temevo. Ho sentito una strana tenerezza. Mattia aveva voluto quel joystick. Lo aveva scelto, lo aveva aspettato. Non per la scatola, non per la marca, ma per il venerdì sera, per la pizza, per la sfida, per il suo “Papà, così non vale”.
Valeria ha preso in mano il joystick nuovo e l’ha girato tra le dita. Poi l’ha appoggiato sul tavolo e ha guardato me.
“Lo teniamo?”
Ho pensato alla sua stanza, al portachiavi consumato, al joystick difettoso nelle mie mani, alle strisce pedonali nella nebbia. Ho pensato a tutte le cose che restano quando una persona se ne va: non la perfezione, ma i segni.
“No,” ho detto piano. “Lo diamo a qualcuno che lo userà davvero.”
Il giorno dopo siamo andati in un centro per ragazzi del quartiere. Niente di eroico, niente di plateale. Solo una stanza con un paio di tavoli, qualche poster scolorito e un educatore con lo sguardo stanco di chi vede la vita nei suoi angoli più fragili.
“È nuovo,” ho detto, porgendo il joystick. “Era di nostro figlio. Non ha fatto in tempo a usarlo.”
L’educatore ha annuito senza fare domande inutili. Ha preso l’oggetto con rispetto, come si prende qualcosa che non è solo un oggetto. In un angolo, un ragazzino con un braccio ingessato ha alzato gli occhi e, per un attimo, li ho visti brillare. Non per avidità. Per gratitudine stupita, quella che hanno i ragazzi quando la vita, ogni tanto, smette di essere crudele.
Sulla via del ritorno, Valeria aveva la mano appoggiata sul mio braccio. Non parlava, ma non era più distante. Era lì. E io, finalmente, la guardavo.
A casa, l’ingresso era ancora libero. Sulla madia, Valeria ha messo una cosa sola: il portachiavi graffiato con il pallone, appoggiato vicino alle chiavi. Non un altare. Un segno piccolo, quotidiano, capace di stare al mondo senza pretendere di fermarlo.
Quella sera abbiamo giocato di nuovo. Io con il joystick rotto, Valeria con quello buono, e quando il tasto R2 si è bloccato e il mio giocatore ha sparato la palla in tribuna, ho riso. Una risata breve, incrinata, ma mia.
Valeria mi ha guardato e ha sorriso anche lei.
“Te l’ha fatta,” ha detto.
“Come sempre,” ho risposto.
E in quel momento ho capito la cosa più difficile: che andare avanti non significa chiudere una porta su Mattia. Significa smettere di vivere nel corridoio. Significa portarlo con noi, non davanti a noi, non tra noi. Significa accettare che il suo nome può anche svanire da un’etichetta, perché ci sono posti in cui l’inchiostro non scolorisce.
Ci sono posti dove resta per sempre: nell’usura di un tasto che si blocca, in un portachiavi graffiato, in una risata che torna a respirare.
E soprattutto, negli occhi di due persone che, finalmente, si scelgono ancora, anche dopo la fine.






