Il ragazzo di strada che ha fermato un funerale: la bara, il respiro nascosto e il tradimento di famiglia

Il ragazzo di strada che ha fermato un funerale: la bara, il respiro nascosto e il tradimento di famiglia

Le porte di quercia sembravano alte un chilometro. Davano l’idea di un castello, e io lo sentivo, lo sapevo: nel momento in cui le avessi attraversate, la mia vita sarebbe finita oppure sarebbe cambiata per sempre. Non c’era una via di mezzo.

La mia mano, screpolata e rossa dal freddo, esitò sulla maniglia di ottone. Addosso avevo ancora l’odore dell’obitorio: quel misto di disinfettante e metallo che non va mai via del tutto. Mi sembrava quasi un profumo adatto per un funerale.

Spinsi.

Il calore fu la prima cosa che mi colpì. Denso, pesante, soffocante. Sapeva di mille fiori – soprattutto gigli – di cera, di lucidante per mobili… e di soldi. Tanti soldi. Sapeva di un mondo che io avevo visto solo attraverso vetri appannati.

Feci un passo dentro, su un tappeto così spesso che avevo la sensazione di affondare. Le mie scarpe bagnate – le uniche che avevo, con dentro dei pezzi di cartone che mi ero ritagliato da solo – fecero un rumore disgustoso: squish, squish sul marmo lucido dell’ingresso.

Tutte le teste si girarono.

Sembrava un film. Una centinaio di persone in abiti neri e collane di perle, facce pallide e composte, tutte immobili. I mormorii rispettosi si spensero all’istante. L’unico suono era lo squish delle mie scarpe e la voce del sacerdote che arrivava dalla sala accanto.

«Siamo qui riuniti oggi per piangere la tragica… perdita…»

Una guardia giurata, un muro di mattoni in giacca nera e auricolare, mi agganciò con lo sguardo. Gli occhi gli scesero dal mio viso alla mia giacca (tre taglie più grande), poi alle scarpe zuppe, e risalirono ancora al mio viso. Non era solo arrabbiato: era disgustato. Come se fossi un pezzo di immondizia volato dentro dal marciapiede.

Che, a dire il vero, era più o meno quello che ero.

«Ragazzo,» sibilò, avvicinandosi, già con la mano tesa verso il mio braccio. «Tu qui non ci devi essere. Devi andartene. Subito.»

Gli sgusciai sotto il braccio.

Fu puro istinto. Anni per strada ti insegnano a muoverti prima di pensare. Non combatti, scivoli via.

Ma stavolta non stavo scivolando fuori.

Stavo scivolando dentro.

«Ehi!» gridò lui, smettendo di sussurrare.

Ma io ero già passato sotto l’arco, nella sala principale.

Era un salone. O forse un grande salotto. Comunque, più grande di qualsiasi appartamento che avessi mai visto. Dal soffitto pendeva un lampadario grande come una macchina. E in fondo, circondato da una montagna di fiori bianchi, c’era il feretro.

Semichiuso.

No. Non ancora del tutto. Il coperchio, pesantissimo, era ancora sollevato. Il sacerdote era lì accanto, il libro aperto tra le mani; la sua voce si spense quando mi vide.

La guardia era dietro di me. Mi afferrò la giacca, strizzando il tessuto nel pugno. «Ho detto, fuori!»

Non avevo tempo. Stavano per chiuderlo. Vidi l’impresario di pompe funebri, un uomo con la faccia molle e triste, fare un cenno a due altri uomini. Era quello il momento. L’ultimo.

Mi divincolai, inciampai in avanti e urlai.

«FERMI! NON CHIUDETELO!»

Le parole mi uscirono dalla gola come uno strappo. Rimbombarono nella sala alta, rimbalzando sui quadri a olio degli antenati morti. Il silenzio che seguì fu assoluto. Così totale che sentii una donna in prima fila lasciarsi scappare un piccolo, scioccato sospiro.

La guardia mi teneva. Il suo braccio era una sbarra d’acciaio sul petto. «Adesso basta, ragazzino. È finita.»

«È VIVA!» strillai, scalciando, cercando di trovare appoggio sul pavimento lucido. «È ANCORA VIVA! NON CHIUDETELO!»

«Fuori di qui!» gridò una donna dalla folla.

«Uno scandalo!» abbaiò un uomo.

La guardia mi trascinava all’indietro. Sentivo le telecamere della stampa in fondo alla sala – la stampa “rispettosa” – che si giravano verso di me. I flash scoppiarono, illuminando il mio viso terrorizzato.

«Lascialo.»

La voce era bassa, tagliente, piena di un’autorità che spaccò il caos come una lama.

La guardia si irrigidì. Il braccio mi bloccava ancora il petto, ma smise di tirare.

Tutti si girarono verso l’uomo che aveva parlato. Era in prima fila. Alto, capelli d’argento, un vestito che probabilmente costava più di quello che avrei guadagnato in tutta la vita, ammesso di arrivarci. Gli occhi erano arrossati dal pianto, ma non erano deboli. Bruciavano.

Erano fissi su di me.

Quello era Samuele Valenti. Il padre di Aurelia. L’industriale.

«Lascialo,» ripeté.

La guardia, confusa, allentò la presa. «Signore, sta disturbando la cerimonia…»

«Ho detto,» la voce di Samuele si abbassò in un sussurro pericoloso, «lascia che parli.»

La guardia mi lasciò come se fossi diventato improvvisamente rovente. Barcollai in avanti, massaggiandomi il petto. L’intera sala – cento paia di occhi – era su di me. I flash continuavano a scattare senza sosta.

Io ero solo un ragazzo di quattordici anni con le scarpe bagnate. Non mi ero mai sentito così piccolo e allo stesso tempo così terribilmente visibile.

Samuele fece un passo verso di me. «Che cosa hai detto?»

I palmi delle mani mi sudavano così tanto che lo sentivo attraverso i guanti. La voce mi uscì come un pigolio. Mi schiarii la gola.

«Signore,» cominciai, la voce tremante ma via via più forte. «Signore… io lavoro part-time. All’obitorio comunale. Faccio le pulizie.»

Un’ondata di disgusto attraversò la sala. Vidi la donna che aveva urlato prima portarsi un fazzoletto al naso, come se mi stessi portando dietro l’odore della morte. Che, a dire il vero, era proprio così.

«Ieri notte,» continuai, «mi hanno chiamato ad aiutare. Ho visto sua figlia. Ho visto Aurelia.»

Il viso di Samuele non cambiò, ma qualcosa nei suoi occhi si irrigidì.

«Respirava,» dissi, le parole che mi uscivano di corsa. «Piano, signore. Quasi niente. Ma respirava. Gliel’ho detto! Li ho pregati di non dichiararla morta. L’ho detto a Gino… l’ho detto al dottor Ferri.»

Puntai un dito tremante verso un uomo che riconobbi all’improvviso in fondo alla sala, vicino alla zona riservata alla stampa. Un ometto basso e stempiato, in giacca e cravatta, il volto impallidito. Il dottor Ferri. Il medico legale. I suoi occhi si spalancarono nel panico.

«Mi hanno zittito!» gridai, la voce che mi si spezzava. «Hanno detto che ero pazzo. Che era solo “rigidità post-mortem”. Che ero solo un ragazzino di strada, cosa potevo sapere io? Ma io l’ho vista. E mi hanno buttato fuori. Hanno chiuso la porta a chiave.»

«È assurdo,» mormorò qualcuno. La guardia tornò a muoversi.

«Mente!» urlò il dottor Ferri dal fondo. «È delirante! È stato licenziato per furto!»

«Non stavo rubando!» urlai io, con le lacrime di frustrazione che mi bruciavano gli occhi. «Era tachipirina, avevo la febbre!»

«Come fai a esserne sicuro?» La voce di Samuele zittì di nuovo tutti. Mi fissava non da industriale, ma da padre sul bordo di un precipizio.

«Perché…» deglutii. Quello era il mio unico asso. L’unica cosa che non potevano liquidare.

«Perché ho visto la cicatrice,» sussurrai. Poi, più forte, perché tutti sentissero: «La cicatrice a mezzaluna. Sulla scapola sinistra. L’ho vista quando la stavano girando. So quello che ho visto.»

Il viso di Samuele impallidì. Diventò così bianco che pensai stesse per svenire. Un brusio attraversò la prima fila, poi tutta la famiglia.

Quella cicatrice.

Era vera.

Era un segreto.

Gli occhi, fino a un attimo prima spenti, si riempirono di un fuoco terribile e disperato. Si voltò dall’altra parte, verso l’impresario delle pompe funebri.

«Aprite,» disse.

L’impresario – l’uomo dalla faccia molle e triste – sembrò sul punto di vomitare. «Signor Valenti… signore… i… i protocolli. Non possiamo. La funzione è…»

«Ho detto,» ruggì Samuele, la voce che esplose nella sala, «APRITE LA BARA. ADESSO.»

L’impresario balbettò. Le guardie strinsero i manganelli, guardandosi tra loro, senza sapere chi obbedire.

Samuele spinse via il sacerdote e posò lui stesso le mani sul pesante coperchio di mogano. «NON SEPPPELLIRÒ MIA FIGLIA OGGI, SOTTO UNA MENZOGNA!»

Il coperchio era pesante. Ci vollero in due, ma alla fine si sollevò con un lungo cigolio.

Un silenzio così profondo calò sulla sala che riuscii a sentire il leggero sibilo dei termosifoni.

Una folata d’aria fredda uscì dalla bara, una nebbiolina bianca che si mischiò al profumo soffocante di gigli e cera. Il cuore mi martellava così forte nel petto che temevo mi si spezzasse. La folla si sporse in avanti, come un unico, enorme organismo che allungava il collo. I flash dei fotografi lampeggiavano, un effetto stroboscopico di orrore.

Dentro, c’era Aurelia.

Era proprio come l’avevo vista sul tavolo d’acciaio. Pallida. Così pallida, con una sfumatura blu sulle labbra. Le mani giunte sul petto. Indossava un vestito bianco.

E le sue ciglia…

Tremavano.

«È… è solo l’aria,» balbettò l’impresario, portandosi una mano al petto. «Una corrente…»

«È immobile,» sussurrò una donna, con un tono di strano sollievo morboso. «Grazie a Dio, è immobile. Il ragazzo è matto.»

Ma io mi stavo già muovendo. Superai il cordone di velluto, la montagna di fiori, e mi fermai proprio davanti alla bara. Sentivo l’odore del liquido di imbalsamazione. Ma sotto… sotto c’era qualcos’altro.

La vita.

«Signore,» dissi, la voce che mi tremava. Guardai Samuele. «Le tocchi il braccio. Per favore. Le tocchi il braccio.»

Lui mi guardò, il volto una maschera di agonia.

«Sentirà calore,» insistetti. «Non tanto. Ma c’è. La prego.»

Samuele Valenti, l’uomo che controllava imperi, in quel momento sembrava un bambino perso. Si inginocchiò lentamente, il completo costosissimo che si stropicciava sul pavimento. La mano, che tremava in modo incontrollabile, si allungò. Esitò, le dita sospese sulle mani giunte della figlia.

«Lo faccia,» sussurrai.

Posò la mano sul suo polso, dove avrebbe dovuto esserci il battito.

Si immobilizzò.

Gli occhi, prima vuoti, si accesero. Non stava solo guardando.

Stava sentendo.

Un brivido gli attraversò tutto il corpo. Si rialzò in parte, guardando non me, ma la folla. Le telecamere. Il dottor Ferri, che ora sudava copiosamente e si stava avvicinando di lato alla porta.

La voce di Samuele uscì spezzata, un singhiozzo graffiato.

«È… è calda.»

Un’ondata di stupore, di shock puro, percorse la sala. Il sacerdote lasciò cadere la Bibbia. Atterrò sul pavimento con un tonfo sordo.

«È viva.»

Come se le sue parole fossero una chiave, Aurelia si mosse.

Non fu un grande movimento. Un colpo di tosse debole, un suono secco e raschiante dal petto. La testa si girò appena, sul cuscino di raso bianco. Un respiro lungo, doloroso le scosse il corpo.

Le palpebre si schiusero.

Aveva gli occhi azzurri, velati, completamente smarriti.

Qualcuno urlò. Stavolta non fu un sospiro. Fu un urlo pieno, da film dell’orrore.

La sala esplose.

Fu il caos totale. Le persone si arrampicavano sulle panche, si spingevano, lottavano per scappare o per vedere meglio. I telefoni si alzarono tutti insieme, a registrare. I giornalisti urlavano domande.

«Che succede?»

«È viva?»

«Oh mio Dio, è un miracolo!»

«È un mostro!»

I medici che erano lì come semplici invitati tornarono medici all’istante. Corsero in avanti, gridando di fare spazio. «Lasciatele aria!» «Qualcuno chiami il 118!» «È in stato di ipotermia!»

Una guardia cercò di tirarmi indietro, convinta che fossi parte del problema. Ma Samuele, con il volto trasfigurato da una gioia feroce e una rabbia glaciale, si mise davanti a me.

«Lasciatelo stare,» ordinò. «Lui è il mio testimone.»

In quell’istante, mentre Aurelia veniva sollevata dalla bara, avvolta nelle coperte, con una maschera d’ossigeno sul viso, io non ero più Marco, il ragazzo di strada.

Ero il testimone di Samuele Valenti.

E avevo appena guadagnato più nemici di quanti ne avessi mai immaginati.

L’ospedale era un altro tipo di freddo. Freddo sterile. Bip dei macchinari. L’odore pungente di disinfettante, un odore pulito e tagliente che, in qualche modo, faceva più paura dell’obitorio.

Aurelia era in un reparto privato. Probabilmente più grande dell’intero dormitorio del centro d’accoglienza in cui dormivo, quando avevo fortuna. Attorno a lei i monitor suonavano ritmi regolari, tubi e fili la tenevano attaccata a un mondo che aveva quasi lasciato.

Io stavo sulla soglia, appena dentro la porta. Avevo ancora gli stessi vestiti bagnati, ma un’infermiera mi aveva infilato in mano un muffin caldo, sigillato nella plastica. Non l’avevo mangiato. Non ci riuscivo. Guardavo e basta.

Samuele era seduto accanto al suo letto, le teneva la mano, le scostava i capelli chiari dalla fronte. Non l’aveva lasciata un attimo, da quando l’avevano caricata sull’ambulanza.

La verità, alla fine, era brutta come avevo immaginato.

Sentivo i sussurri. Le telefonate secche e rabbiose che Samuele faceva in corridoio.

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