Il ragazzo di strada che ha fermato un funerale: la bara, il respiro nascosto e il tradimento di famiglia

Il ragazzo di strada che ha fermato un funerale: la bara, il respiro nascosto e il tradimento di famiglia

Il referto del medico legale era stato fatto in fretta. «Evidenze superficiali.» «Protocollo medico.» L’incidente l’aveva ridotta in condizioni critiche, sì. Uno stato talmente vicino alla morte, con un polso così debole, che un medico legale pigro, sovraccarico… o pagato… poteva firmare senza pensarci troppo.

Il dottor Ferri, il medico legale, era sparito. Aveva preso «un congedo urgente per motivi personali».

Il personale dell’obitorio – il mio vecchio capo, Gino – quando fu messo alle strette, balbettò scuse. «Apparecchi difettosi.» «Una terribile incomprensione.» «Pressioni dall’alto per chiudere il caso.»

Quando mi videro nel corridoio, le loro facce si contrassero in una paura limpida. Non ero più il ragazzino che puliva le vasche.

Ero il fantasma che li aveva visti seppellire una viva.

I media, ovviamente, esplosero. Il mio viso era ovunque. Ma la storia stava già cambiando.

Per alcuni ero un eroe. Un «angelo di strada».

Altri, alimentati dai sussurri che venivano sicuramente dall’ufficio di Ferri, erano meno gentili. «Ragazzo senza credibilità.» «La truffa dell’orfano.» Andarono a scavare nel mio passato. Trovarono la denuncia per piccolo furto. La tachipirina. Trovarono la volta che mi avevano fermato perché dormivo in un vicolo.

Ero un «bugiardo abituale», un «ragazzo instabile», un «fantasioso».

Ero nel corridoio dell’ospedale, a guardare un telegiornale su una TV appesa al muro, mentre una giornalista dal sorriso finto stava smontando pezzo per pezzo la mia «inesistente credibilità», quando Samuele uscì dalla stanza di Aurelia.

Si fermò accanto a me, guardando lo schermo. La giornalista stava dicendo: «…e fonti vicine alla famiglia confermano che il ragazzo, Marco Rinaldi, ha una storia di comportamenti erratici…»

Samuele afferrò il telecomando e spense la TV. Il silenzio cadde pesante.

«Faranno una conferenza stampa nell’atrio,» disse, con voce piatta. «Vorranno risposte. Vorranno vedere te.»

Mi chinai, come colpito. «Io… io posso andare via. Non volevo causare…»

«Tu non vai da nessuna parte,» disse, voltandosi verso di me. Gli occhi erano pesanti. «Vieni a casa con me. Starai nella villa. Sotto la mia protezione.»

«Protezione?»

«Da loro,» disse, indicando la TV ormai nera. «E da… altri.»

Mi mise una mano pesante sulla spalla. Il completo era stropicciato. Sembrava invecchiato di dieci anni da quella mattina.

«L’ho sentito parlare,» disse un’ora dopo ai giornalisti, con la voce trasmessa su ogni canale. Era in piedi dietro un leggio, un muro di microfoni davanti. Io ero un passo dietro di lui, di lato, con una felpa pulita che un’infermiera era riuscita a recuperare. Mi sentivo un alieno.

«Gli “esperti” hanno sbagliato,» disse Samuele, con disprezzo. «I medici hanno sbagliato. Il sistema ha sbagliato. Questo ragazzo… questo bambino… è stato l’unico ad avere gli occhi abbastanza limpidi per vedere la verità. Ha visto quello che io non vedevo. Ha salvato la vita di mia figlia. Non è un bugiardo. È mio ospite. E qualunque… soggetto… proverà a screditarlo, avrà a che fare con me. Personalmente.»

L’opinione pubblica cambiò come la marea. Ma io sapevo, mentre stavo lì, che non aveva solo offerto protezione a me.

Aveva dipinto un bersaglio sulla mia schiena.

Vivere nella villa era come vivere sulla luna.

Avevo una stanza mia. Non una branda in un dormitorio, ma una stanza. Con un letto così morbido che avevo paura di affogarci dentro. Con un bagno privato, rubinetti dorati a forma di cigno.

La servitù, che all’inizio mi guardava con pena o disgusto, adesso mi guardava con un rispetto timido e nervoso. Mi chiamavano «signor Marco». Mi portavano il cibo su vassoi d’argento. Cibo che avevo visto solo sulle riviste.

I fratelli di Aurelia – una sorella, Chiara, più grande, che mi guardava come se fossi un granello di polvere fastidioso, e un fratello più piccolo, Tommaso, che si limitava a sbattere le palpebre – mi evitavano.

Ero un fenomeno da baraccone. Una curiosità. Il fantasma del funerale che camminava per i corridoi.

Nei momenti di calma, Samuele mi cercava. Si sedeva con me nella sala da pranzo enorme e vuota, una tazzina di caffè tra le mani che non beveva mai davvero.

«Le hai salvato la vita,» mormorava, più a se stesso che a me. «Hai salvato la mia famiglia.»

Avevo passato tutta la vita affamato e invisibile. Ora mi invitavano a tavola. Mi chiedevano il parere. Mi davano briciole di gentilezza che non sapevo come gestire.

Ma le ombre restavano.

Sentivo le discussioni. Le telefonate secche che Samuele faceva nel suo studio. Le compagnie assicurative non volevano saperne. Come si poteva trasformare un «decesso certificato dal medico legale» in un «sopravvissuto rianimato»? Era un incubo amministrativo. Uno scandalo.

Si mormoravano cause legali.

Gli «altri» di cui Samuele aveva parlato… li sentivo. Soci d’affari arrivavano alla villa, uomini con facce dure e valigette costose, che pretendevano «controllo» sull’ospedale, volevano sapere ogni dettaglio della prognosi.

Lo capivo. Il miracolo che avevo portato alla luce mi aveva reso una sorta di guardiano.

Ma anche un bersaglio.

Ero il filo penzolante di un maglione che qualcuno voleva disfare.

Una sera non riuscivo a dormire. Il pigiama di seta che mi avevano dato mi irritava la pelle, come carta vetrata. Mi misi a vagare per i corridoi. La casa era silenziosa, un museo della vita di una famiglia.

Mi sentii attirato, di nuovo, verso la biblioteca. Verso lo studio privato di Samuele. La porta era socchiusa.

Sapevo che non dovevo. Era il suo spazio.

Ma l’inquietudine, la curiosità, erano diventate una cosa viva. Entrai in punta di piedi.

Le pareti erano piene di libri, segreti, cassetti chiusi a chiave. Tranne uno. Il cassetto in basso della grande scrivania era leggermente aperto.

Mi inginocchiai. Dentro c’erano fascicoli. Cartelle cliniche. Un nome cancellato con il pennarello nero. Una cartellina spessa con su scritto «Progetto Fondo Valenti».

E un tablet.

Le dita mi tremavano. Lo presi. Lo schermo era sbloccato. Aperto su una cartella.

«Aurelia – Revisione post-mortem»

Toccai.

Mi si gelò il sangue.

C’era il referto originale di anatomia patologica. Foto dell’autopsia – cose che avevo già visto in obitorio, ma così, sullo schermo, erano diverse. Ingigantite. Primo piano dei polmoni. E un appunto, una nota scannerizzata del primo patologo – non Ferri, un altro.

Diceva: «Tracce sui polmoni non compatibili con causa di morte dichiarata. Attività polmonare significativa indicata dopo il trauma. Si richiede immediata revisione e seconda valutazione.»

E sotto, una risposta. Timbrata in rosso.

RICHIESTA RESPINTA. PROCEDERE SECONDO PROTOCOLLO. – S.V.

Sgranai gli occhi, lasciando cadere il tablet. Rimbalzò sul parquet con un tonfo secco.

S.V.

Samuele Valenti.

Aveva firmato lui.

«Lui… lui sapeva,» mormorai nella stanza vuota.

Qualcuno aveva classificato volutamente male la morte di Aurelia. Qualcuno in alto aveva nascosto la verità.

E le iniziali sul diniego…

«Marco.»

Mi voltai di scatto, il panico acido in gola.

Samuele era sulla porta. Il viso, nell’ombra, era indecifrabile.

«Marco,» ripeté, piano. Entrò nella stanza, gli occhi sul tablet per terra. Non sembrava arrabbiato. Sembrava… stanco.

«Non dovevi vederlo.»

«Lei… lei ha fatto questo?» La mia voce si spezzò. «S.V. È lei. Ha… ha provato a seppellirla viva?»

Scosse la testa, con una tristezza profonda negli occhi. Passò accanto a me, raccolse il tablet, guardò lo schermo.

«Sì,» disse, con voce grave. «Sapevo.»

«Lei… cosa?» Mi girava la testa.

«Sospettavo un gioco sporco,» disse, guardandomi. «La scena dell’incidente. I testimoni “spariti”. Gli ordini di silenzio. La fretta con cui si muoveva il dottor Ferri.»

«Ma… le sue iniziali…»

Indicò lo schermo. «S. Valenti, sì. Ma non sono io. Quello è Saverio Valenti. Mio fratello. Il mio socio.»

Tirò fuori una busta dalla tasca della giacca. La stessa che l’avevo visto rigirarsi nervosamente tra le mani qualche ora prima.

«Sospettavo,» continuò, «ma non avevo prove. L’avevano già “blindata”. Avevano in mano il medico legale, l’impresa funebre. Si muovevano troppo in fretta. Non riuscivo a fermarli.»

Mi guardò, e negli occhi gli lessi una gratitudine fredda e terribile.

«E poi sei arrivato tu,» sussurrò. «Tu, un ragazzo di strada. Hai scoperchiato tutto. Li hai costretti a esporsi, davanti alle telecamere, dove non potevano nascondersi.»

Mi girava tutto. «Ma… perché? Perché suo fratello…?»

«Potere,» disse Samuele, e il viso si fece duro. «Eredità. Il Fondo Valenti. Con Aurelia fuori gioco, e io… “paralizzato dal dolore”… mio fratello Saverio e i suoi alleati avrebbero avuto il controllo totale.»

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