Il ragazzo di strada che ha fermato un funerale: la bara, il respiro nascosto e il tradimento di famiglia

Il ragazzo di strada che ha fermato un funerale: la bara, il respiro nascosto e il tradimento di famiglia

Guardò verso la porta, come se si aspettasse che qualcuno facesse irruzione da un momento all’altro.

«Ha cercato di seppellire mia figlia,» disse. «E tu… tu l’hai salvata.»

Fece una pausa, poi aggiunse: «Adesso sei famiglia, Marco. Che ti piaccia o no. E questo significa che sei in pericolo quanto lei.»

Quando Aurelia fu stabile, la trasferirono. Non in un altro ospedale, ma in una casa di cura privata in montagna, un luogo che conoscevano solo Samuele e le sue guardie più fidate.

Samuele organizzò una cosa anche per me. Un viaggio.

«Voglio che tu lo veda,» disse, con voce cupa. «Voglio che tu veda cosa le hanno fatto.»

Arrivammo all’alba. La nebbia avvolgeva ancora il relitto carbonizzato dell’auto, rimasto lì, delimitato dai nastri della polizia. La carrozzeria contorta, il parabrezza in frantumi, la lunga striscia scura sull’asfalto.

Samuele si inginocchiò, sfiorando con le dita i segni delle gomme. «Doveva morire qui,» mormorò. «Loro volevano che morisse qui.»

Mi avvicinai, seguendo con gli occhi i danni. L’impatto era stato sul lato passeggero, dove era seduta Aurelia. Lo sportello era accartocciato come una lattina.

E lì, incisi debolmente sulla cornice interna della portiera, come graffi fatti con una chiave, vidi delle iniziali.

R.P.

Restai a fissarle. Le toccai col guanto. «Signore… che cos’è?»

Samuele seguì il mio sguardo. Trattenne il fiato.

«Rebecca Pagani,» sussurrò. Il nome gli uscì come un’imprecazione.

«Chi?»

«La… “collaboratrice” di mio fratello,» disse, con il veleno nella voce. «La sua braccio destro nelle acquisizioni. Una nemica della mia famiglia. Dev’essere stata lei. Dev’essere stata lei a… a “sistemare” le cose.»

La testa mi girava. Non era solo una lite familiare. Era una guerra di potere. Era… omicidio.

Samuele mi mise una mano sul braccio, la presa d’acciaio. «Combatteremo, Marco. Con le carte in regola. Alla luce del sole. Abbiamo la verità. Abbiamo te.»

Quando tornammo, Aurelia era sveglia. Davvero sveglia. La nebbia nei suoi occhi era sparita.

Era seduta a letto, fragile, ma lo sguardo… lo sguardo era identico a quello di suo padre. Tagliente. D’acciaio.

Mi guardò quando entrai.

«Tu sei Marco,» sussurrò.

Annuii, sentendomi timido, fuori posto.

«Mi hai salvata.»

Deglutii. «Io… ho solo detto quello che avevo visto.»

«No,» disse lei, tendendo una mano debole. «Tu hai urlato. Li hai costretti ad ascoltare. Mi hai salvata.»

Le presi la mano. Era sottile, ma calda.

«Sì,» dissi, trovando un coraggio improvviso e strano. «Però anche tu hai salvato me.»

Samuele ci osservava, un’espressione complicata sul volto. Poi tirò fuori un’altra busta. Questa era diversa. Vecchia, ingiallita, chiusa con un sigillo di cera.

«Era tra gli effetti personali di Aurelia, all’incidente,» disse. «Nella tasca della giacca. La polizia l’ha registrata, ma non sapeva che cos’era. Io credo… che debba aprirla tu.»

Guardai Aurelia. Annuii.

Ruppi il sigillo.

Dentro c’era un solo foglio di carta spessa, elegante. La calligrafia era femminile, rotonda.

Non era una lunga lettera.

Alla mia carissima Aurelia,
Se stai leggendo questo, vuol dire che è successo il peggio. Verranno a cercarti. Cercheranno di portarti via ciò che è tuo. Non fidarti di Saverio. Non fidarti del nome Pagani. C’è solo una persona che potrà aiutarti. Devi trovare il ragazzo. Proteggi questo ragazzo. Lui non è solo un testimone. Doveva essere parte della nostra famiglia.
— R.P.

Il cuore mi si fermò.

Lessi di nuovo. E di nuovo.

R.P.

Le iniziali sulla portiera dell’auto. Rebecca Pagani.

Ma quella non era una confessione.

Era un avvertimento.

Un avvertimento contro Saverio.

E… un avvertimento che parlava di me?

«Trova il ragazzo. Proteggi questo ragazzo… Doveva essere parte della nostra famiglia.»

«Che… che cosa significa?» Guardai Samuele, con la mente completamente in tilt. «Lei ha detto che Rebecca Pagani era il nemico. Che… che aveva cercato di uccidere Aurelia.»

Il volto di Samuele si fece di gesso. Prese la lettera dalle mie mani tremanti. La lesse, gli occhi che correvano veloci sulle righe, il mondo che gli crollava addosso.

«Stava… cercando di avvertirla,» mormorò. «Le iniziali sull’auto… non era un marchio. Era un indizio che lasciava. Non era lei a guidare quella macchina. Stava cercando di dire chi era il vero pericolo.»

«Ma… io?» chiesi, quasi senza voce. «Che vuol dire… “trova il ragazzo”?»

Samuele mi guardò, con negli occhi una consapevolezza lenta e terrificante. «Lei non sapeva chi fossi, Marco. Ma… sapeva che c’eri. Sapeva che… qualcuno… sarebbe arrivato.»

Guardò la lettera, poi me, poi sua figlia.

«Hanno cercato di seppellirci sotto vergogna e menzogne,» disse, ma la sua voce non aveva più la stessa sicurezza di prima. Non stava più parlando di Rebecca Pagani. Stava parlando di suo fratello.

Fuori, oltre il vetro blindato della villa di montagna, i flash delle telecamere illuminavano il buio – ci avevano trovati, la stampa trova sempre tutti, alla fine.

Strinsi più forte la mano di Aurelia.

Incontrai gli occhi di Samuele, e un patto muto passò tra noi.

La bara non avrebbe mai dovuto chiudersi.

Ma quello che avevamo scoperto era molto più di un errore medico. Non era stato un incidente. Era una trama costruita a tavolino.

E la battaglia per la verità?

Era solo all’inizio.

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