Il ragazzo in sedia a rotelle al distributore e il segreto dell’ultimo viaggio del nonno morente

«Eri tu a guidare la sfilata?» ha chiesto, la voce roca ma decisa.

«Sì.»

«Perché?»

L’ho guardato. Ho pensato a Luca che si spingeva per due ore con una sedia rotta.

«Perché tuo nipote ti vuole bene. Perché sa che ti dai la colpa per l’incidente. Perché voleva che ti ricordassi chi eri, prima di diventare l’uomo che pensi di essere adesso.»

Gli occhi del Lupo si sono riempiti di lacrime. «Lui non mi odia?»

«No, signore. Voleva solo che sentissi il tuono un’ultima volta.»

Giulio mi ha afferrato la mano. La stretta era debole, ma disperata.

«Ho venduto la moto il giorno dopo l’incidente», ha sussurrato. «Non ce la facevo a guardarla. Mi sono promesso che non sarei mai più salito in sella. Era la mia punizione per quello che ho fatto a Luca.»

«Non è stata colpa tua, fratello. Luca lo sa.»

«Non importa. Guidavo io. Lui non camminerà più perché guidavo io.»

Mi sono seduto sul bordo del letto. «Sai cosa ha fatto oggi tuo nipote? Si è spinto da solo per due ore per trovare uno come me. Sai perché? Perché dice che suo nonno gli ha insegnato che chi ama la strada si prende cura dei suoi. Che la vera fratellanza è farsi vedere quando conta.»

Giulio ha guardato verso la finestra. «È là fuori?»

«È nel furgone. Ti guarda.»

«Potresti…» Ha fatto un respiro profondo. «Potresti dirgli qualcosa da parte mia?»

«Digliela tu.» Ho preso il telefono. Ho chiamato Stefano. «Porta Luca in stanza 12.»

Cinque minuti dopo, Luca è entrato, spingendo la sua sedia da solo. Nonno e nipote si sono fissati come se non si vedessero da anni.

«Scusa, nonno», ha detto Luca. «So che non volevi che nessuno sapesse che eri qui.»

«Sei stato tu?» ha chiesto Giulio. «Hai trovato quelle moto?»

Luca ha annuito. «Dicevi sempre che il rumore delle moto poteva svegliare i morti. Ho pensato che magari poteva aiutare anche chi sta morendo.»

Giulio ha allungato la mano. Luca si è avvicinato. Si sono presi le mani.

«Scusami, ragazzo mio. Per l’incidente. Per tutto.»

«Non è colpa tua, nonno. E sai una cosa? Sono contento che guidassi tu, quel giorno.»

Gli occhi del Lupo si sono spalancati. «Contento?»

«Sì. Perché mi hai tenuto tra le braccia dopo lo schianto. Quando urlavo. Quando non sentivo più le gambe. Mi raccontavi storie di viaggi. Di libertà. Di come la vera strada non è quella sotto le ruote, ma quella dentro la testa.»

«Ti ricordi?»

«Ogni parola. E avevi ragione. Le mie gambe non funzionano. Ma la mia testa? La mia testa viaggia ogni giorno. Perché me l’hai insegnato tu.»

Giulio lo ha tirato verso di sé. Si sono abbracciati, mentre quindici motociclisti stavano nel parcheggio con il motore spento e il capo chino.

Giulio Rinaldi è morto sei ore dopo.

Ma non è morto dimenticato. Non è morto pieno di rimpianti. È morto sapendo che suo nipote lo amava. È morto con il rumore dei motori ancora nelle orecchie. È morto da motociclista.

Il funerale è stato tre giorni dopo. La madre di Luca non voleva motociclisti. Diceva che avevano già fatto abbastanza danni alla sua famiglia.

Ma Luca mi ha chiamato. Con la stessa determinazione di quel pomeriggio.

«Mamma si sbaglia», ha detto. «Nonno vi vorrebbe lì.»

Così siamo andati. Non in quindici, stavolta.

In quarantasette.

La notizia aveva girato tra i gruppi della regione. Motociclisti di ogni tipo. Ex vigili del fuoco, infermieri, meccanici, insegnanti. Tutti lì per salutare il Lupo.

La madre di Luca ha provato a farci allontanare. Ma Luca ha spinto la sua sedia fino a lei.

«Mamma, questi uomini hanno dato pace a nonno. Gli hanno ridato dignità. Gli hanno ricordato chi era. Se li mandi via, non stai seppellendo lui. Stai seppellendo un uomo rotto che non è mai esistito.»

Lei ha guardato suo figlio. Poi noi. Quel mare di caschi e giacche consumate.

«Parlava di moto tutti i giorni», ha sussurrato. «Anche dopo l’incidente. Soprattutto dopo. Diceva che la strada era l’unico posto dove si sentiva intero.»

«Era intero, mamma. Anche dopo l’incidente. Solo che se n’era dimenticato.»

La cerimonia è stata semplice. Ma quando hanno iniziato ad abbassare la bara, quarantasette moto si sono accese tutte insieme. Il tuono ha attraversato il cimitero. Altri funerali si sono fermati. Alcune persone si sono lamentate.

Ma Luca sorrideva. Si è portato la mano al petto. Ha alzato due dita verso il cielo.

Sei mesi dopo, Luca mi ha richiamato.

«Marco? Sono io. Puoi venire a casa nostra? Devo farti vedere una cosa.»

Sono andato quel pomeriggio. Luca mi aspettava nel garage, in sedia a rotelle. Ma non era solo.

«Questo è Davide», ha detto. «Costruisce moto speciali per persone come me.»

Nel garage c’era una moto. Ma non una qualunque. Un triciclo motorizzato, costruito su misura. Due ruote dietro, una davanti. Comandi manuali al manubrio. Un sedile studiato per sostenere il suo corpo. Metallo lucido ovunque.

«Come…?» ho balbettato.

Luca ha sorriso. «Con l’assicurazione sulla vita di nonno. Mamma ha detto che lui avrebbe voluto così. Che voleva che io viaggiassi. Che fossi libero.»

«Ma tu non…»

«Non posso usare le gambe? È vero. Ma Davide dice che non servono. Si fa tutto con le mani. Frizione, freno, cambio.»

L’ho guardato. Quindici anni, paralizzato dalla vita in giù, la bombola d’ossigeno ancora inseparabile. Ma negli occhi la stessa fiamma che avevo visto negli occhi di tanti motociclisti in quarant’anni.

«Mi insegni?» ha chiesto. «Mi insegni ad andare in moto?»

Ho pensato al Lupo. A quel giorno nel parcheggio della casa di riposo. Al tuono che aveva svegliato un uomo sul letto di morte.

«Sì, ragazzo. Ti insegno.»

La prima uscita di Luca è stata due settimane dopo. Solo intorno all’isolato. Sua madre sul balcone, terrorizzata. Io accanto a lui con la mia moto, orgoglioso come un padre.

Quando siamo rientrati nel cortile, Luca piangeva.

«Lo sento», ha detto. «Nonno. È qui con me.»

Sono passati tre anni da allora.

Luca ora ha diciotto anni. Va in moto quasi ogni giorno. Guida il nostro giro benefico annuale per i bambini in ospedale. La sua moto ha un piccolo carrellino per la sedia. È diventato una leggenda, in zona. Il ragazzo che non cammina, ma vola su tre ruote.

È anche diventato una voce per chi ha una disabilità. Spiega ad altri ragazzi in sedia a rotelle che la strada non guarda le gambe. Guarda lo spirito.

A ogni raduno racconta la storia del Lupo. Del nonno che ha smesso di andare in moto per colpa del senso di colpa. Del nipote che l’ha riportato, almeno con l’anima, sulla strada. Di quindici motociclisti che hanno regalato a un morente un ultimo assaggio di libertà.

E alla fine di ogni racconto, Luca dice sempre la stessa cosa:

«Mio nonno mi ha insegnato che essere motociclista non c’entra con i cavalli del motore. C’entra con il cuore. C’entra con l’essere presenti. Con la fratellanza. Con il non lasciare che qualcuno muoia dimenticato. In quell’incidente forse si è fermato il mio midollo, ma il mio spirito non si è mai fermato. E non si fermerà mai.»

La settimana scorsa, Luca si è diplomato alle superiori. Quarantasette moto erano parcheggiate fuori dalla scuola. Sua madre piangeva. Stavolta non di paura o tristezza. Di orgoglio.

Quando Luca ha attraversato il palco con la sedia, si è fermato un secondo. Ha guardato il cortile. Ha alzato le due dita.

Il tuono delle moto ha riempito l’aria.

E da qualche parte, ne sono certo, il Lupo sorrideva.

Perché suo nipote non si è limitato a sopravvivere a quell’incidente. Ha imparato a volare.

E ha insegnato a un vecchio come me che a volte i viaggi più importanti sono quelli che fai nei parcheggi degli ospedali. Che la fratellanza più vera si misura da chi si presenta nei momenti peggiori. Che il rumore dei motori non sveglia solo i morti.

Risveglia i vivi.

Luca sogna di attraversare tutta l’Italia l’estate prossima. Dal mare del Sud fino alle montagne del Nord. Mille e più chilometri su quel triciclo lucido. Un ragazzo paralizzato, con una bombola d’ossigeno, che taglia la penisola seguendo la linea dell’asfalto.

Io sarò accanto a lui. Con me Stefano. Michele. I gemelli Ricci. E probabilmente altri trenta.

Perché questo è quello che facciamo.

Ci presentiamo.

Viaggiamo insieme.

E ci assicuriamo che nessun nonno se ne vada senza sentire un’ultima volta il tuono delle moto.

Giulio Rinaldi è stato seppellito con le chiavi della sua moto in tasca. Luca gliele ha infilate lui stesso. Ha detto che magari gli servivano, ovunque stesse andando.

Credo avesse ragione.

Perché da qualche parte, su un’autostrada che non finisce mai, il Lupo sta di nuovo guidando. Senza colpa. Senza rimpianti. Solo strada, curve, e quel rumore che ti riempie il petto.

E suo nipote viaggia con lui. Moto diversa. Corpo diverso. Stesso spirito.

Lo spirito che dice che una sedia a rotelle è solo un altro tipo di cavallo d’acciaio.

Lo spirito che dice che le gambe ferme non possono fermare un’anima testarda.

Lo spirito che dice che i veri motociclisti non lasciano mai che un fratello muoia nel silenzio.

Ieri Luca mi ha mandato una foto. Lui sulla sua moto, al tramonto. Nello stesso parcheggio del distributore dove ci siamo incontrati tre anni fa. Stessa provinciale. Stesso odore di benzina nell’aria.

La didascalia diceva: «Nonno viaggia con me a ogni chilometro.»

Gli credo.

Perché ci sono cose più forti della morte. Più forti della paralisi. Più forti della colpa.

E la fratellanza di chi condivide la strada?

Quella è una di quelle.

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