Il Sedile 13: Lo Scuolabus della Speranza che Nutre Senza Fare Rumore

Ogni mattina, il sedile numero 13 aspetta un bambino senza colazione, senza calzini caldi. E eppure, lì c’è sempre qualcosa ad attenderlo.

Mi chiamo Giovanni, 58 anni, autista di scuolabus nella provincia nebbiosa del Nord Italia. Ogni mattina accendo il motore alle 5:45. Fuori, il fiato si condensa come fumo bianco, mentre la radio parla di scioperi dei trasporti e del carovita. Prego in silenzio per trovare semafori verdi e perché i ragazzi arrivino sani e salvi.

Il sedile 13 si trova subito dietro la porta d’emergenza. Ogni autista ha un posto che non dimentica mai. Il 13 è il mio.

Tutto è iniziato a gennaio, al rientro dalle vacanze della Befana. Le strade erano ancora piene di sale, il cielo grigio piombo. È salito un ragazzino che non avevo mai visto. Cappuccio calato, zaino storto. Odorava di panni stesi in casa che non si sono asciugati bene.

Si è seduto al posto 13, fissando le sue scarpe. Quando è sceso, è rimasta una macchia scura sul pavimento, lì dove i calzini bagnati avevano attraversato la tela delle sue scarpe da ginnastica ormai andate.

La mattina dopo, a casa, ho preparato un piccolo pacchetto. Una focaccia, una mela, un succo di frutta in brik. Ho aggiunto un paio di calzini termici presi al mercato e due scaldamani. Su un bigliettino ho scritto: «Per chi ne ha bisogno. Niente domande.» Ho messo tutto sul sedile 13.

Quando siamo arrivati a scuola, il pacchetto era sparito. Piegato con cura, era stato nascosto sotto il sedile, come se volesse rimanere invisibile.

Da quel giorno, il sedile 13 è diventato il nostro piccolo segreto silenzioso. Certi giorni il pacchetto restava intatto. Altri giorni spariva prima della terza fermata. Una volta ci ho trovato un biglietto: «Hai salvato la mia mattinata.» Un’altra volta: «Questi calzini tengono caldo. Grazie.»

Non ho mai chiesto nomi. In Italia si parla tanto nei talk show di ISEE, di bonus spesa, di reddito e burocrazia. Ma qui, sul mio autobus, la politica non c’entra. Qui conta solo che un bambino non stia seduto in classe con la pancia vuota.

Piano piano, l’idea ha iniziato a crescere.

Una ragazzina delle medie ha lasciato un pacchetto di fazzoletti nella scatola, con nonchalance. Un ragazzo, solitamente muto come un pesce, ci ha infilato un quaderno nuovo. Il custode del deposito ha notato i miei scontrini e mi ha portato dei sacchetti di merendine che aveva comprato all’Eurospin. Mi ha detto, con gli occhi lucidi, che anche lui da giovane sapeva cosa voleva dire avere fame.

A marzo, la preside voleva darmi una lettera di ringraziamento. L’ho presa, l’ho messa sul frigo a casa, ferma con una calamita, vicino alla bolletta della luce. Un pezzo di carta non scalda i piedi alle sei del mattino.

Un lunedì di primavera, Marco, prima media, è salito in ritardo. Gli occhi rossi di pianto. Si è seduto al 13, ha visto la scatola, ha ritratto la mano.

Solo all’ultima fermata l’ha presa, ha percorso il corridoio e l’ha data a un bambino più piccolo con un giubbotto di due taglie più grande e il gesso al braccio. «Tieni», ha detto solo. Io guardavo fisso la strada, stringendo il volante fino a farmi diventare le nocche bianche. A volte i gesti più coraggiosi accadono nel silenzio assoluto.

Ad aprile, improvvisamente c’era più roba nella scatola di quanta ne venisse tolta. Del cioccolato in polvere da parte di una maestra, un biglietto dell’autobus donato da una mamma che non lo usava più. Una mattina ho trovato una lettera: «Mio figlio si è seduto qui. Dorme meglio adesso. Grazie per averlo visto.»

Sono arrivate le vacanze estive, i ragazzi facevano un chiasso tremendo per la gioia. Prima che corressero fuori, mi sono alzato. «Statemi a sentire», ho detto. «Il sedile 13 appartiene a tutti noi. Se ne avete bisogno, prendete. Se no, aiutatemi a fare in modo che non resti mai vuoto.» Hanno annuito, seri come piccoli adulti che hanno capito una cosa importante.

A settembre, con la riapertura delle scuole, tutto è ricominciato. Nuove liste, nuovi visi. Ho ripreso il mio rito. Panino, frutta, barrette ai cereali. E sempre quel bigliettino sopra: «Sei più importante di quanto credi.»

Una volta ha preso la scatola un bambino figlio di rifugiati. Più tardi ci ho trovato solo una caramella e un foglietto stropicciato: «Oggi ero io. Domani non più io. Grazie.» Un’altra volta, una prof mi ha raccontato che una ragazzina aveva trovato il coraggio di alzare la mano in classe per la prima volta, proprio dopo aver fatto colazione sul bus.

Poco prima di Natale, nella scatola sono apparsi dei guanti fatti a maglia, rossi e un po’ storti. Con una lettera: «Non abbiamo più bisogno del sedile 13. La Caritas ci sta aiutando adesso, e mia mamma ha trovato un lavoro con orari normali. Questi guanti andranno bene a qualcun altro. Buon Natale.»

Quando la sera riporto l’autobus in rimessa, a volte passo la mano sullo schienale del sedile. Lì dove si sono posate tante mani, il tessuto è diventato più chiaro, consumato dalla vita. Forse è proprio lì, in quel punto preciso, che una città smette di essere solo cemento e rumore, e inizia a diventare umana.

Non posso abbassare il prezzo della benzina. Non posso pagare gli affitti della gente. Ma posso custodire un sedile. Un posto che non rimane mai vuoto.

Il sedile 13 appartiene a tutti noi. Finché resta pieno, resta piena anche la nostra speranza.

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