Se pensate che la storia della Signora Valenti finisca con un biglietto nel portafoglio, vi sbagliate. Perché il Tavolo 4 non è un posto: è un modo di guardare. E quando torni a guardare davvero, non riesci più a smettere.
Quel mattino avevo ancora il biglietto di A. Valenti caldo in tasca, come se la carta potesse trattenere un po’ della sua voce. Avevo lucidato il corridoio fino a farlo brillare, ma il mio cuore era opaco. E poi l’ho visto: qualcuno era seduto al Tavolo 4.
Non era una signora con le perle. Era un uomo magro, con una giacca di lana troppo grande e le spalle piegate come se portasse addosso un inverno intero. Aveva davanti un vassoio quasi intatto, e lo sguardo fisso su un punto che non era il piatto, né la sala, né il presente.
Mi sono avvicinato piano, come sempre. Non per educazione: per non spaventare la fragilità. Ho passato lo straccio vicino al suo tavolo e ho notato le posate.
Il coltello era messo di traverso, come se non sapesse dove stare. La forchetta aveva una strana angolazione nella mano dell’uomo, e le sue dita si muovevano a scatti piccoli, nervosi. Non era Parkinson, no. Era altro. Una rigidità, una resistenza.
L’uomo ha provato a infilzare una patata lessa e la patata è scivolata via, come se lo prendesse in giro. Lui ha sospirato, ma non un sospiro di fame: un sospiro di stanchezza. Quella stanchezza che arriva quando ti sei già scusato troppe volte, con te stesso.
Ho lasciato il secchio vicino al muro e ho fatto un passo.
“Buongiorno,” ho detto piano.
Lui ha alzato gli occhi. Aveva un taglio sottile sul sopracciglio, forse una vecchia caduta. Il viso era segnato, ma non in modo drammatico. In modo vero.
“Buongiorno,” ha risposto, e la voce era roca, come una porta che si apre dopo anni.
“Mi chiamo Elio. Sono… quello che pulisce.”
Lo sguardo gli è scivolato sulla mia divisa blu e poi è tornato sul mio volto, come se cercasse la persona dietro il colore.
“Arturo,” ha detto. “Arturo Bianchi.”
Il nome era semplice, ma lo ha detto con una certa cura, come se avesse paura che gli scappasse via. Ho notato anche la mano sinistra: più lenta, più rigida. Un’ombra di ictus, ho pensato. Ne avevo visto uno da vicino: mio fratello.
Arturo ha riprovato con la forchetta. Niente. Ha stretto le labbra, e per un attimo mi è sembrato di rivedere la Signora Valenti: non nella forma, ma nella vergogna.
Ho sorriso, quel sorriso che non impone, ma invita.
“Queste posate…” ho detto, facendo una smorfia teatrale. “Sono di una crudeltà rara. Sembrano fatte apposta per litigare con la gente.”
Lui ha sbattuto le palpebre, sorpreso. Una risata gli è rimasta incastrata in gola, ma almeno non era silenzio.
“Non è colpa delle posate,” ha mormorato, e ha guardato la sua mano come se fosse un oggetto difettoso.
Io ho fatto finta di non sentire quella frase. Ho finto di non vedere il dolore che ci stava dentro, perché certe cose, se le guardi troppo in faccia, diventano più pesanti.
“Posso?” ho chiesto, indicando il coltello.
Arturo ha esitato, poi ha annuito appena. Non era un sì convinto. Era un sì stanco.
Ho preso il coltello e ho tagliato le patate in pezzi più piccoli, poi ho spezzato la carne in striscioline. Non ho fatto in fretta. Ho fatto con rispetto. Ogni taglio era un modo per dire: non hai bisogno di chiedere scusa.
“Ecco,” ho detto. “Adesso queste patate non possono più scappare.”
Arturo ha provato col cucchiaio. Ha tremato un poco, ma il cucchiaio è arrivato alla bocca. Un boccone. Poi un altro. E poi ha fatto una cosa piccola, quasi invisibile: ha abbassato le spalle di un millimetro, come se avesse smesso di trattenere il fiato.
Non mi ha ringraziato subito. Alcuni ringraziamenti arrivano dopo, quando la dignità ha finito di medicarsi.
Sono tornato al mio secchio, ma con un orecchio ancora lì. Ho sentito le infermiere passare veloci, parlare di terapie, di turni, di cartelle. Parole importanti, certo. Ma in mezzo a quelle parole, Arturo era solo un corpo seduto.
Più tardi, mentre asciugavo vicino alla finestra, ho visto una giovane infermiera fermarsi al Tavolo 4. Aveva i capelli raccolti male, come chi non ha avuto tempo nemmeno per uno specchio.
“Signor Bianchi, deve mangiare,” ha detto con voce stanca. Non cattiva. Stanca.
Arturo ha abbassato lo sguardo, come un bambino rimproverato.
“Ci provo,” ha sussurrato.
Lei ha guardato il piatto tagliato.
“Chi le ha fatto questo?” ha chiesto.
Arturo ha alzato gli occhi verso di me, dall’altra parte della sala. Un attimo. Un dubbio. Poi ha risposto:
“Il coltello,” ha detto, serio. “Il coltello oggi era… più educato.”
La ragazza ha aggrottato la fronte, confusa. Io mi sono girato e ho finto di controllare una macchia sul pavimento, ma dentro mi è scappato un sorriso.
Il giorno dopo ho portato una cosa in tasca: un vecchio pezzo di gommapiuma, quello che usavo anni fa per isolare i tubi. L’ho tagliato in casa, la sera, mentre la televisione parlava da sola e il silenzio mi guardava.
Quando Arturo è arrivato, ho aspettato che la sala fosse un po’ più tranquilla. Poi mi sono avvicinato e ho tirato fuori la gommapiuma.
“Arturo,” ho detto piano, “oggi facciamo un esperimento.”
Lui mi ha guardato sospettoso.
“Non mi metta in mezzo a cose strane,” ha mormorato.
“Solo una cosa da vecchi testardi,” ho risposto.
Ho infilato la gommapiuma attorno al manico del cucchiaio, rendendolo più grosso, più facile da afferrare. Era un trucco da niente, ma a volte i trucchi piccoli cambiano intere mattinate.
Arturo ha preso il cucchiaio. La mano ha tremato meno. Il cucchiaio non gli è scappato.
“Cos’è?” ha chiesto.
“Un cucchiaio con il cappotto,” ho detto. “Fa freddo anche a lui.”
Arturo ha fatto un mezzo sorriso, e quel mezzo sorriso ha illuminato tutto il Tavolo 4 più di qualsiasi lampada.
Con il tempo, ho imparato anche le sue pause. Arturo parlava poco, ma quando parlava era come se dovesse scegliere le parole una per una, da un cassetto che si apriva con fatica.
Un giorno, mentre ripulivo le sedie, mi ha chiamato con un gesto.
“Elio,” ha detto.
“Sì?”
“Lei cammina davvero piano.”
Ho sentito la gola stringersi. Non perché fosse un complimento, ma perché era la frase del biglietto. La frase con cui Stefano mi aveva riconosciuto. E capisci che certe cose, qui dentro, si passano come una staffetta silenziosa.
“È per non disturbare,” ho risposto.
Arturo ha annuito, come se quella spiegazione fosse la più sensata del mondo.
“Sa cosa disturba invece?” ha continuato, e la voce gli è diventata più bassa. “Quando la gente parla sopra di me. Come se non fossi qui.”
Non era una denuncia. Non era rabbia. Era una constatazione. E quelle fanno più male, perché non chiedono vendetta: chiedono solo presenza.
“Succede spesso?” ho chiesto.
Arturo ha guardato il bordo del piatto.
“Da quando mi è venuta… questa,” ha detto, e ha mosso la mano rigida. “Io ero uno che aggiustava tutto. Lavoravo sui tram. Se una porta non si chiudeva, io la facevo chiudere. Adesso non riesco ad aprire uno yogurt.”
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