Il vecchio pompiere che sfidò la bufera notturna per salvare una neonata abbandonata in autogrill

Il vecchio pompiere che portò una neonata attraverso la bufera quando tutti avevano rinunciato

A settantun anni, Bruno pensava di averle viste tutte.
Incendi, incidenti in autostrada, terremoti, notti intere passate con il casco in testa e il fumo nei polmoni.

Da quando era andato in pensione dai vigili del fuoco, la sua vita si era fatta più lenta: qualche turno come volontario con la protezione civile, un vecchio motociclo con il quale continuava a girare per le colline dell’Appennino, e il bar dell’area di servizio dove si fermava quasi ogni sera per un caffè lungo.

Ma niente l’aveva preparato a quel biglietto appuntato a una copertina di pile, nel bagno gelido di un’area di servizio quasi deserta.

“Si chiama Stella.
Non posso pagare le cure.
Vi prego, salvatela.”

Il bagno era così freddo che si vedeva il fiato.
La neonata, avvolta male in una copertina sottile, aveva le labbra violacee e le mani dure come ghiaccio.
Fu la braccialettina di plastica al polso che fece stringere lo stomaco a Bruno: c’era scritto il nome, il giorno di nascita – appena pochi giorni prima – e una sigla che lui conosceva fin troppo bene:

“Cardiopatia congenita grave.
Intervento entro 72 ore.”

Qualcuno l’aveva lasciata lì, in un bagno di autogrill, piuttosto che guardarla soffrire senza poter pagare le cure.

Bruno la prese in braccio con la stessa delicatezza con cui, anni prima, aveva portato fuori dalle macerie bambini impolverati.
Se la mise contro il petto, cercando di scaldarla col proprio corpo. Sentiva quel piccolo cuore battere a scatti, irregolare, ma ancora ostinato.

Fuori, sull’autostrada che attraversava gli Appennini, infuriava la peggior nevicata degli ultimi quarant’anni. La radio dell’area parlava di carreggiate chiuse, mezzi pesanti bloccati, soccorsi in ritardo.

L’ospedale della città più vicina aveva già risposto: per un intervento così delicato serviva il reparto di cardiochirurgia pediatrica del grande ospedale “San Luca”, al nord, più di trecento chilometri lontano, dall’altra parte della pianura, oltre tratti di autostrada chiusi a tratti, mezzi intraversati, caos.

Il 118 aveva detto la verità, con voce stanca:

“Signore, stiamo facendo il possibile. Con questo tempo, un’ambulanza attrezzata può partire domattina. Forse nella notte, se la situazione migliora.”

Domattina.
Forse.

Quella bambina non aveva “forse”.
Non aveva “domattina”.

Bruno si guardò le mani, segnate da anni di servizio, e poi lo specchio lurido del bagno.
Dentro lo sguardo, rivide un’altra volta. Un’altra stanza d’ospedale. Un altro cuore troppo debole. E lui che non era riuscito ad arrivare in tempo.

Stringendo Stella al petto, la infilò dentro il suo giaccone imbottito e tirò la zip fin quasi al mento, lasciando solo spazio per il viso.

«Finché batte, io non mollo,» mormorò.

Si avviò verso l’uscita con passo deciso.
La sua vecchia moto – una grossa Guzzi da turismo tenuta come una reliquia – era lì, coperta da uno strato di neve.
Nessuno, con un po’ di buon senso, sarebbe salito in sella con quel tempo.

Ma Bruno, di buon senso, ne aveva avuto fin troppo per una vita intera.
Quella sera, scelse qualcos’altro.


Io ero alla pompa del distributore, a mettere gasolio nel furgoncino del mio piccolo trasporto locale, quando lo vidi.

Nessuno girava in moto con quel gelo, con la neve che tagliava la faccia come lame.
Solo lui.

Riconobbi la figura curva, il casco vecchio ma lucidato, la giacca arancione della protezione civile.
Bruno, che tutti nel tratto di autostrada chiamavano “il Nonno dei pompieri”.

Parcheggiò vicino alla colonnina. Notai subito quel rigonfiamento innaturale sotto la giacca, all’altezza del petto, e la sua mano che lo teneva fermo, protettivo.

«Bruno, ma sei fuori di testa? Con ‘sto tempo…» cominciai.

«Non ho tempo,» mi tagliò secco, con una voce che non ammetteva discussione. «Mi devi fare un favore. Anzi, due.»

Prima ancora che potessi chiedere cosa, aprì appena la giacca.

La vidi.

La cosa più piccola che avessi mai visto, a parte gli uccellini caduti dal nido da bambini.
Una neonata, qualche giorno di vita, le guance ancora un po’ cianotiche, il respiro corto, affannoso.

«L’ho trovata nel bagno,» disse Bruno, mentre con una mano impugnava la pistola della pompa di benzina. «Abbandonata. Cardiopatia grave. Serve un intervento. L’unico posto dove possono operarla stanotte è al San Luca. E il San Luca è dall’altra parte del mondo, con questa neve.»

Sentii uno strappo allo stomaco.

«Hai chiamato il 118?» chiesi, anche se sapevo già la risposta.

«Hanno detto “forse domattina”. Ma io domattina non gliela prometto, a lei.»
Si chinò un attimo, avvicinando le labbra all’orecchio minuscolo della bambina. «Vero, piccola? Tu ci provi, e io ci provo con te.»

«Bruno, non puoi affrontare trecento chilometri in moto con una neonata nel giubbotto. È follia.»

«Peggio di vederla morire da sola in un bagno?» mi chiese, guardandomi dritto negli occhi. «Se muore sulla mia giacca, almeno qualcuno avrà lottato con lei.»

Capìi che aveva già deciso.
E che con uomini come lui, quando avevano deciso, non serviva discutere: serviva decidere se stargli accanto o girarsi dall’altra parte.

«Sei da solo?» domandai.

«A meno che tu non abbia qualcosa da fare di meglio,» rispose, con un mezzo sorriso triste.

Guardai il mio furgone, caldo, chiuso, sicuro.
Guardai la neve che si accumulava sull’asfalto.
Poi guardai il minuscolo volto di Stella, la bocca che cercava aria come un pesciolino fuori dall’acqua.

«Dammi cinque minuti,» dissi. «Chiamo mia moglie che non mi aspetta per cena… e prendo il casco. Vieni dietro al furgone, ti faccio da ombra finché posso.»

Gli occhi di Bruno si fecero lucidi. Ma annuì solo, senza parole.


In meno di dieci minuti, la storia era partita sulle radio dei camionisti, sulle chat dei volontari, nei gruppi dei motociclisti della zona.
“Un vecchio pompiere sta portando una neonata malata al San Luca, attraverso la bufera. Serve aiuto, punti di appoggio, latte caldo, coperte, gente che apra i benzinai anche di notte.”

Quando lasciammo l’area di servizio, non eravamo soli.
Dietro al mio furgone, oltre alla moto di Bruno, si erano messi in fila altri due motociclisti volontari, con le luci lampeggianti arancioni.
Un’auto con due ragazzi della protezione civile ci seguiva con una barella di fortuna, “per ogni evenienza” dissero, senza osare pronunciare altro.

«Morirete congelati, là fuori,» borbottò il gestore del bar, guardandoci infilare caschi e guanti.

«Può darsi,» rispose Bruno, sistemando ancora una volta la bambina sul petto, come se la cullasse. «Ma lei non morirà da sola in un cesso. Questo no.»

I primi cinquanta chilometri furono i più terribili della mia vita.
Il vento laterale cercava di spingerci fuori strada a ogni curva.
La neve si incollava alle visiere, costringendoci ad aprirle e chiuderle in continuazione.
Sentivo le mani perdere sensibilità nonostante i guanti pesanti.

Bruno, però, non rallentava.
Stava incollato al paraurti del mio furgone, usando il mio volume per farsi scudo dal vento, con una mano sul manubrio e l’altra costantemente appoggiata al petto, dove Stella dormiva a scatti.

Ogni venti chilometri accostavamo per pochi secondi in una piazzola.
Spegnevamo i motori quel tanto che bastava per sentire il respiro della bambina.

«Resisti, stellina,» sussurrava Bruno. «Ancora un po’. Te lo giuro, ti porto dove ti aggiustano il cuore.»

Al primo paese di montagna, incontrammo il nostro primo “miracolo”.

Il bar della piazza, che ufficialmente avrebbe dovuto essere chiuso, era illuminato.
Una donna anziana, con un maglione grosso e i capelli raccolti in uno chignon disordinato, ci venne incontro appena ci vide parcheggiare davanti.

«Siete voi, quelli della bambina?» chiese. «Mi ha chiamato mio nipote, sta al casello e ha sentito la storia alla radio. Entrate, fate in fretta, ho scaldato il latte e acceso la stufa.»

Dentro, sembrava estate.
Bruno si sedette vicino al termosifone, aprì con delicatezza la giacca e tirò fuori Stella, come se fosse fatta di vetro.

La donna la guardò e portò una mano alla bocca.

«Madonna santa… quanto piccola.»
Gli porse un biberon minuscolo. «Ho usato il latte in polvere per i prematuri, ne avevo ancora. Mio bisnipote è nato al settimo mese…»

Bruno annuì, cercando di non far tremare le mani mentre nutriva la bambina a piccoli sorsi.

«Perché?» chiese la donna, a bassa voce. «Perché rischiate la vita così? Non è sangue vostro…»

Bruno la guardò, e per la prima volta vidi scendere una lacrima lungo la sua guancia arrossata dal freddo.

«Perché una volta ho avuto anch’io una figlia,» disse piano, come se stesse confessando qualcosa a se stesso. «Stessa storia. Cuore malato. Ero di turno, in un’altra città, a spegnere un incendio in un capannone. Non sono arrivato in tempo. È morta senza che potessi darle la mano.»

Abbassò lo sguardo verso Stella, che succhiava a fatica.

«Non potevo salvare mia figlia. Ma forse posso salvare lei.
E a quest’età… o ci provi fino in fondo, o ti porti il rimpianto nella tomba.»

In quel momento capii che per Bruno non era solo una corsa contro il tempo per una sconosciuta: era anche una corsa contro il passato.

Ripartimmo.
E ogni venti, trenta chilometri, come se il mondo intero si fosse svegliato, succedeva qualcosa.

Un benzinaio che aveva lasciato le luci accese “nel caso passassimo”.
Un farmacista che ci aspettava con una bombola di ossigeno portatile.
Una famiglia che ci apriva il cancello per farci entrare nel cortile e ripararci dal vento, offrendo coperte e tè caldo.

La voce correva: volontari, camionisti, autisti di autobus, semplici automobilisti bloccati nella bufera.
Nessuno conosceva Stella, ma tutti parlavano di lei come se fosse un parente lontano.

«Avete bisogno di accompagnamento?» ci chiese un uomo robusto, scendendo da uno spazzaneve del comune. «Mi posso mettere davanti, vi apro la strada.»

Fu così che ci trovammo a seguire, a distanza di sicurezza, un enorme mezzo con la lama abbassata, che buttava la neve ai lati come un mare bianco.

Bruno, dietro, sembrava una piccola ombra attaccata al suo solco.

A metà strada, si unì a noi una piccola colonna: altre moto di volontari, qualche fuoristrada, un paio di auto con la scritta “Associazione Amici del Cuore dei Bambini” sui cartelli magnetici laterali.

Non erano sigle famose, non erano grandi organizzazioni: erano persone normali che avevano letto un messaggio inoltrato su una chat e avevano acceso il motore.


Dopo ore di marcia, la neve sembrava volerci inghiottire.
Nella pianura, il vento non aveva ostacoli e soffiava diritto nel viso.
Bruno cominciava a barcollare un po’ in curva, i movimenti meno precisi.

All’improvviso, poco prima di una grande area industriale, lo vidi accostare bruscamente sulla corsia d’emergenza.
Pensai che fosse caduto, ma riuscì a tenere in piedi la moto all’ultimo secondo.

Frenammo tutti.

«Non respira bene,» disse, con la voce spezzata. «Si muove appena…»

Un volontario che ci seguiva con il fuoristrada si precipitò. Era un infermiere in un pronto soccorso, lo sapevo: si faceva chiamare “Dario”, ma per tutti era “il Dottore”, anche se non lo era davvero.

Ascoltò il torace di Stella con uno stetoscopio tirato fuori da una borsa consunta.

«Il cuore lavora come un pazzo,» mormorò. «È stanca. Non possiamo rallentare, dobbiamo arrivare il più in fretta possibile, ma se cadete è finita.»

«Non posso andare più forte di così senza protezione dal vento,» rispose Bruno, quasi disperato. «Con queste raffiche, la moto vola via…»

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