Fu allora che sentimmo un clacson lungo, insistente, alle nostre spalle.
Un enorme camion si era fermato dietro alla nostra colonna d’emergenza, con i lampeggianti accesi.
L’autista si sporse dal finestrino, il cappello di lana calcato sugli occhi.
«Siete voi, quelli della bambina?» urlò sopra il vento. «Vi sto cercando da mezz’ora, vi ho perso alla rotonda.»
«Sì!» gridai. «L’abbiamo qui!»
«Venite dietro di me, attaccati al paraurti. Vi faccio da muro.
Io tengo la traiettoria, voi state nella mia scia. Vi porto fino allo svincolo per la città. Ho anche avvisato altri due colleghi: si mettono davanti a me, così apriamo un corridoio.»
«Rischi il lavoro, a guidare così,» fece notare qualcuno.
«Ho dei nipotini,» rispose l’uomo, stringendo le mani sul volante. «Se fossero loro, vorrei che qualcuno facesse lo stesso.»
Ci guardammo un momento. Non c’era niente da discutere.
Bruno risalì in sella.
Io mi piazzai dietro al camion, lui si incollò dietro di me. Gli altri si disposero a ventaglio per proteggere la moto, creando una specie di bolla di asfalto asciutto in mezzo al caos bianco.
Gli ultimi cento chilometri furono surreali.
Camion davanti, camion dietro, sirene lontane di pattuglie che, informalmente, ci aiutavano a tenere libera la corsia.
Sulle rampe dei cavalcavia vedevamo gente affacciata, che faceva video con il telefono, che salutava, che applaudiva.
Non lo sapevamo ancora, ma sui social la storia di “Stella nella bufera” stava esplodendo.
La foto di un vecchio volontario, con la giacca arancione, la barba bianca e una neonata nascosta contro il petto, stava facendo il giro del Paese.
La direzione del San Luca, avvisata ore prima, aveva tenuto aperta la sala operatoria anche oltre l’orario.
Un’équipe di cardiochirurgia pediatrica era pronta, camici indossati, mani guantate, monitor accesi.
A noi interessava solo una cosa: il respiro di Stella.
Quando finalmente vedemmo le luci dell’ospedale all’orizzonte, mi accorsi che stavo tremando non solo per il freddo.
“Ancora cinque chilometri. Tre. Uno.”
Entrammo nel piazzale d’emergenza come un piccolo esercito disordinato: moto coperte di ghiaccio, furgoni, jeep, camion.
Bruno spense la moto a fatica, le mani talmente intorpidite che non riusciva a girare bene la chiave.
Ma quando si trattò di scendere e correre verso il portone, con Stella stretta al petto, si muoveva come un ragazzo.
«Sono passate otto ore e mezza!» gridò, consegnando la bambina nelle braccia del medico di turno. «Otto ore e mezza senza cure come si deve!»
Il medico non fece domande inutili. Girò sui tacchi e sparì con la neonata e l’équipe dentro il corridoio.
Bruno rimase immobile, al centro del viavai del pronto soccorso, e solo allora il suo corpo cedette.
Le ginocchia gli si piegarono, dovetti afferrarlo sotto le ascelle.
Le sue mani erano bianche, le dita violacee: principio di congelamento.
Il viso, pieno di taglietti di gelo. Le labbra, screpolate fino al sangue.
«L’hai portata qui,» gli dissi, con la voce più ferma che riuscii. «Arrivare era il tuo compito. Ora tocca a loro.»
«Adesso… si aspetta,» rispose, sedendosi lentamente su una sedia di plastica. «E si prega. Se uno ci crede. Io non so neanche se ci credo ancora, ma tanto… non mi costa niente.»
Trentasette persone – tra motociclisti, camionisti, volontari, curiosi che ci avevano accompagnato – si sedettero con lui nella sala d’attesa.
Uomini grandi, donne stanche, ragazzi con le mani ancora sporche d’olio, tutti con lo sguardo fisso sulla stessa porta.
Le ore dell’intervento furono sei.
Sei ore in cui Bruno si alzava, camminava su e giù, guardava l’orologio, si sedeva, si rialzava.
Ogni tanto gli sfuggiva una frase sottovoce: «Non fare come l’altra volta, ti prego… non farmi rivivere la stessa scena…»
All’alba, quando il cielo cominciava a schiarirsi dietro i vetri appannati, la porta finalmente si aprì.
Una donna con il camice verde e il cappellino in testa si avvicinò. Aveva occhi stanchi, ma un sorriso lieve.
«L’intervento è riuscito,» disse. «Il cuore è stato “riparato” il più possibile. Avrà bisogno di controlli, di altre cure, ma… è viva. E, per ora, forte.»
Per qualche istante, nessuno parlò.
Poi, all’improvviso, la sala si riempì di sospiri, pianti, abbracci.
Un camionista alto due metri cominciò a singhiozzare come un bambino, coprendosi il viso con le mani.
Bruno restò immobile.
«Posso… posso vederla?» chiese, quasi temendo la risposta.
«È un familiare?» domandò la dottoressa.
Io intervenni d’istinto.
«Se è qui è perché lui l’ha trovata, l’ha tenuta in vita, l’ha portata attraverso mezza Italia con questa nevicata. È l’unico che le abbia fatto da padre, finora.»
La dottoressa guardò Bruno per qualche secondo, poi annuì.
«Venga. Ma solo lui, per ora.»
Lo seguimmo con lo sguardo mentre entrava nel reparto di terapia intensiva neonatale.
Stella era lì, dentro una culla termica, collegata a tubicini e monitor.
Il suo petto minuscolo si alzava e abbassava con regolarità, assistito ma non più disperato.
Bruno appoggiò una mano grande come una pala sul vetro trasparente.
«Ehi, stellina,» sussurrò. «Ce l’hai fatta. Brava.»
Tirò fuori dal portafoglio il foglietto stropicciato trovato sulla copertina del bagno.
«“Non posso pagare le cure.”» lo lesse, con la voce spezzata. «Ma vedi? Alla fine qualcuno ci ha pensato.»
Poco dopo, nel corridoio, ci raggiunsero il direttore amministrativo dell’ospedale e una signora in tailleur, che si presentò come responsabile di una fondazione privata.
«In queste ore,» spiegò, «la storia della corsa nella neve ha fatto il giro del Paese.
Migliaia di persone hanno iniziato a donare. Non per noi, ma per lei, per Stella.
Abbiamo già raccolto abbastanza per coprire tutte le sue cure… e molto di più.»
Il direttore aggiunse:
«Abbiamo deciso di creare un fondo stabile, dedicato ai bambini con cardiopatie congenite le cui famiglie non possono permettersi tutto il percorso. Lo chiameremo “Fondo Stella”.
Questa bambina non solo vivrà, ma aiuterà molti altri a vivere.»
Bruno si passò una mano sugli occhi.
«Hai sentito, piccola?» mormorò, tornando con lo sguardo alla culla. «Hai il cuore aggiustato e, in più, ne aggiusterai altri. Non è male, come inizio.»
Tre giorni dopo, mentre fuori la neve si scioglieva piano e le strade tornavano nere, arrivò in ospedale una ragazza.
Aveva diciassette anni, i capelli raccolti in fretta sotto un cappuccio, le scarpe bagnate.
Le mani le tremavano mentre stringeva il biglietto sgualcito che i giornali avevano già mostrato al mondo.
«Sono io,» disse, davanti a un’infermiera. «Sono la mamma di Stella.»
La sua storia era semplice e terribile, come tante altre.
Ragazza rimasta incinta, cacciata di casa, qualche mese in un’auto parcheggiata nei piazzali dei supermercati.
Una gravidanza seguita a metà, tanta paura, nessuna stabilità economica.
Quando le avevano detto che la bambina aveva una cardiopatia grave e che le cure sarebbero costate più di quanto potesse guadagnare in anni di lavori precari, qualcosa dentro di lei si era spento.
«Non volevo ucciderla,» ripeteva, con le lacrime agli occhi, seduta davanti all’assistente sociale. «Volevo solo che qualcuno la trovasse e le desse quello che io non potevo darle. Non vedevo un’altra strada.»
Pensava che l’avrebbero portata via in manette.
Che tutti l’avrebbero insultata, giudicata, condannata.
Quando Bruno la vide, in corridoio, si avvicinò lentamente.
«Sei tu la mamma?» chiese, senza durezza.
Lei annuì, senza riuscire a sostenerne lo sguardo.
«Hai fatto una cosa terribile,» disse lui, dopo un attimo. «E una cosa coraggiosa, allo stesso tempo.
Terribile perché nessuna madre dovrebbe mai lasciare sola una creatura in quel modo.
Coraggiosa perché, invece di fare finta di niente, hai cercato un modo – storto, disperato – di darle una possibilità.»
La ragazza cominciò a piangere più forte.
«Non merito…» provò a dire.
«Non è questo il punto,» la interruppe Bruno. «Lei ha bisogno di una madre. Tu hai bisogno di aiuto. Noi abbiamo bisogno di rimediare a un mondo che lascia una diciassettenne partorire da sola in un’auto.
Quindi adesso, se vuoi, la smettiamo di puntare il dito e cominciamo a costruire qualcosa.»
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