La bambina che bussò alla mia porta alle due di notte con una gattina ferita ha cambiato tutto

Bussò alla mia porta alle due di notte, stringendo una gattina quasi senza fiato, e mi chiese se potevo “aggiustare la micia come aggiusti sempre i motori della tua moto”.

Non l’avevo mai vista prima in vita mia. Una bambina minuscola, a piedi nudi sul pianerottolo gelato, il pigiamino sottile, le labbra violacee, le braccia strette intorno a quel batuffolo di pelo che respirava appena, come se fosse la cosa più preziosa del mondo.

La mia moto era ancora nel cortile, coperta a metà, gli attrezzi sparsi nel piccolo garage. Io, Marco, sessantacinque anni, ex vigile del fuoco e volontario del soccorso su due ruote, ero rimasto sveglio più del dovuto a cambiare una guarnizione che perdeva. Evidentemente, in mezzo alle luci spente del quartiere, quella moto lì era sembrata a qualcuno un faro acceso.

«Per favore, signore,» sussurrò con i denti che battevano. «La micia sta male… e la mamma non si sveglia.»

Quelle cinque parole – “e la mamma non si sveglia” – cambiarono tutto. Non era più solo una storia di un animale ferito.

La sollevai subito, lei e la gattina. Era leggera come niente. Si aggrappò al mio giubbotto di pelle e alla felpa come se li conoscesse da sempre, infilando il naso nel tessuto caldo.

La gattina respirava a fatica, aveva un fianco rigido, il respiro corto. Sembrava investita da un’auto o schiacciata da qualcosa. Il pigiama della bambina era bagnato d’erba, di brina, chissà da quanto camminava al freddo.

«Come ti chiami, tesoro?» chiesi, entrando in casa e chiudendo il portone alle nostre spalle.

«Mi chiamo Giulia. Lei è Stella. L’ha presa la macchina.»

«E dove abiti, Giulia?»

Indicò vagamente con la manina, verso il buio della strada. «Là, dove ci sono i fiori sul balcone. Ma la mamma non si sveglia e Stella è troppo pesante, non riuscivo a portarla da sola.»

Mentre le mettevo addosso una coperta del divano, con l’altra mano presi il telefono. Chiamai il 118 quasi senza pensarci: anni di emergenze non li dimentichi. Ma quello che disse subito dopo mi fece capire che non potevamo limitarci ad aspettare l’ambulanza.

«La mamma è caduta dopo che se n’è andato l’uomo che urla sempre,» disse con voce tranquilla, come se parlasse di un cartone animato. «Faceva dei rumori strani… poi si è fermata.»

Partii già in movimento, infilando le scarpe, afferrando la mia vecchia borsa di primo soccorso che non ho mai smesso di tenere pronta accanto alla porta. Tenevo Giulia stretta tra le braccia, la coperta intorno a lei, il telefono in viva voce mentre spiegavo la situazione all’operatore.

«Giulia, andiamo a vedere la mamma, va bene?»

Annuì, sempre stringendo Stella contro il petto. «Poi puoi aggiustare anche lei?»

«Farò tutto quello che posso,» le promisi. «E non saremo soli.»

Uscii sul portone. Per un attimo guardai la moto, poi la bambina. Due di notte, una bimba in braccio e un gatto ferito. La moto rimase dov’era. Cominciai a correre per la strada deserta, il fiato che usciva in nuvolette bianche, mentre lei mi indicava la direzione con un dito.

«Qui… la casa con i gerani rossi,» sussurrò dopo pochi minuti.

Il portone dell’androne era socchiuso. Nessuna luce, nessun rumore. Salimmo al primo piano, la porta di un appartamento era spalancata. Dentro, odore di vino, di paura, di qualcosa di interrotto di colpo.

La misi seduta su una sedia vicino all’ingresso. «Rimani qui, Giulia. Non muoverti. Io vado dalla mamma.»

Nel soggiorno, il disordine parlava da solo: una sedia a terra, un quadro rotto, una lampada abbattuta. Lì, sul pavimento, una donna giovane, poco più che trentenne. Distesa su un fianco, una macchia scura sotto la testa. Gli occhi chiusi.

Mi inginocchiai accanto a lei. «Signora, mi sente?»

Aveva il polso debole ma presente. Respirava, il petto si muoveva in modo regolare. La ferita in testa era brutta, ma non vedevo sangue che zampillasse, niente di apertamente devastante. Poteva avere una commozione, forse peggio, ma se arrivavano in tempo…

Avvertii l’operatore del 118: «Donna giovane, trauma cranico, incosciente ma con polso e respiro presenti. Cinque minuti fa si muoveva ancora, secondo la bambina. Indirizzo…» dettai la via e il numero.

Trovai degli asciugamani puliti in cucina, li piegai e li posai delicatamente sotto la testa della donna per tenerla stabile, evitando di muoverla troppo. Le parlavo piano, come avevo imparato coi feriti: «Signora, tenga duro, adesso arrivano i soccorsi. Sua figlia è qui vicino, sta bene.»

Alle mie spalle, Giulia guardava in silenzio, con quegli occhi troppo grandi per una bambina di tre anni. Stringeva la gattina come se fosse un salvagente.

All’inizio avevo pensato che fosse uscita di casa solo per l’animale. Guardandola, capii che la storia era un po’ diversa.

«Giulia, sei stata tu a chiamare l’ambulanza?»

Scosse la testa. «No. La mamma ha detto che se succede qualcosa devo cercare qualcuno con la moto. Ha detto che quelli con la moto ascoltano i bambini.»

Sentii un nodo alla gola.

«E l’uomo che urla sempre?» chiesi, scegliendo con cura le parole.

«È il fidanzato della mamma,» rispose. «Quando si arrabbia, sbatte le porte. Oggi ha sbattuto anche la mamma. E quando è andato via, ha preso Stella con la macchina. Stella ha fatto “miao” forte, poi niente.»

Parlava senza piangere, come se fosse già abituata a tradurre scene troppo grandi in frasi piccole.

Arrivarono prima i carabinieri, poi l’ambulanza. In pochi minuti il soggiorno si riempì di luci blu che ballavano sulle pareti, di voci basse, di guanti di lattice che si muovevano sicuri. Spiegai quello che sapevo, senza aggiungere giudizi: cosa aveva detto la bambina, cosa avevo trovato, da quanto tempo.

Un’operatrice dei servizi sociali, chiamata d’urgenza, arrivò quasi insieme ai sanitari. Era una donna sui cinquanta, con uno sguardo che ne aveva viste tante. Si inginocchiò davanti a Giulia.

«Ciao, io sono Anna. Tu sei Giulia, vero?»

La bambina annuì.

«La mamma adesso va in ospedale. Tu puoi venire con me, così intanto ti scaldi e aspettiamo notizie.»

Giulia si aggrappò alla mia manica. «Posso stare col signore della moto?»

L’operatrice alzò gli occhi verso di me.

Inspirai a fondo. «Io e mia moglie siamo famiglia affidataria da anni,» dissi. «Siamo nel registro comunale. Se controllate, trovate i nostri nomi. Possiamo tenerla noi stanotte, finché non si capisce come sta la madre.»

Anna prese il telefono, chiamò, verificò. Poi annuì lentamente. «Va bene, signor Marco. Per stanotte viene con voi. Domani mattina ci vediamo in ufficio e vediamo il da farsi.»

Giulia, sentendo quella frase, tirò un sospiro di sollievo così profondo che quasi le scivolò la gattina dalle braccia.

«E Stella?» chiese piano. «Anche lei viene?»

«Se la lasci così, non arriva fino a domani,» dissi con sincerità gentile. «Ho un amico veterinario che stanotte è di turno in clinica. Lo chiamo e la facciamo vedere.»

Mentre caricavano la madre sull’ambulanza, posai una mano sulla spalla di Giulia. «La mamma va in un posto dove la curano. Noi, intanto, ci occupiamo di te e di Stella. D’accordo?»

Lei annuì. Per la prima volta, vidi comparire un’ombra di fiducia nel suo sguardo.


In auto, sulla strada verso casa, Giulia si addormentò quasi subito, con la testa sul mio braccio e la gattina stretta nella coperta. La mia vecchia utilitaria sembrava all’improvviso troppo piccola per tutto quel peso: una vita ferita, un’infanzia sospesa, una madre in ambulanza.

Chiamai il dottor Bianchi, il veterinario con cui collaboriamo spesso come volontari quando troviamo animali incidentati sulla strada. Rispose assonnato, ma quando sentì la parola “bambina”, la voce gli cambiò.

«Portamela subito in ambulatorio,» disse. «La gatta la guardo io, la piccola la fai sedere dove vuole.»

Quando arrivammo, Bianchi prese Stella con mani esperte, la visitò, la radiografò. Fratture, contusioni, ma niente di irrimediabile.

«Ce la può fare,» disse a me, a bassa voce. «Però serviranno giorni e attenzione. E costerà qualcosa.»

Lo guardai negli occhi. «Lo sai che il Gruppo Volontari copre queste cose.»

Lui sorrise. «Lo so. Ma stasera, se ti chiedono, puoi dire che è un favore personale.»

Giulia, nel frattempo, si era svegliata e guardava attraverso il vetro della stanza dove Bianchi medicava la gatta. «La sta aggiustando, vero?»

«Sì,» dissi. «Stella è in buone mani.»

Quella notte, Giulia dormì sul divano di casa nostra, con una coperta pulita e un pupazzo che mia moglie tirò fuori dal vecchio baule di nostra figlia. Si addormentò con la mano stretta a quella di mia moglie, come se avesse sempre dormito lì.

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