La bambina che bussò alla mia porta alle due di notte con una gattina ferita ha cambiato tutto

Io rimasi sveglio troppo a lungo, con le immagini della casa sottosopra negli occhi e la frase della madre nella testa: “Se succede qualcosa, cerca qualcuno con la moto”.


La mattina dopo, il telefono squillò presto. L’ospedale: la mamma di Giulia, Elena, era stata operata per un’emorragia interna alla testa. Intervento riuscito, prognosi riservata ma incoraggiante. Era viva, e questo bastava per iniziare a respirare.

Più tardi, ci presentammo ai servizi sociali. Ci sedemmo intorno a un tavolo con l’assistente sociale, un avvocato, un’educatrice. Giulia stava in braccio a mia moglie, con Stella nella cesta, qualche filo di sutura sul fianco ma gli occhi già curiosi.

Raccontarono a noi, e in parte anche a lei, quello che avevano ricostruito. Il compagno di Elena, uomo con precedenti per risse e abuso di alcol, l’aveva spinta durante l’ennesimo litigio. Lei era caduta battendo la testa contro l’angolo del mobile. Lui era uscito di casa sbattendo la porta, salendo in macchina in preda alla rabbia. Stella, spaventata, era finita sotto le ruote mentre lui sgommava via.

«Per Giulia,» spiegò l’assistente sociale, «era già capitato di sentire urla e lanciare oggetti. Ma una caduta così, e la mamma che non risponde… per lei è stato un terremoto.»

«Non ha chiamato il 118,» dissi piano. «È venuta a cercare una moto.»

Anna annuì. «Elena le aveva spiegato che, se si fosse sentita in pericolo, doveva cercare qualcuno che le ispirasse fiducia. Le aveva detto che chi gira in moto nel quartiere siete voi volontari, che spesso aiutate quando c’è un incidente. Di notte, l’unica cosa che Giulia ricordava era il rumore dei vostri motori. È uscita e ha cercato finché ha visto la tua.»

Guardai la bambina. Stava giocando con un bottone del cardigan di mia moglie, serena come solo i bambini sanno tornare ad essere dopo aver pianto abbastanza.

«Quindi ora?» chiesi.

«Elena dovrà stare in ospedale ancora un po’,» disse Anna. «Il compagno è stato fermato e ci sarà un processo. Nel frattempo, se siete disponibili, possiamo formalizzare un affido temporaneo. Giulia rimarrebbe con voi, ma con contatti regolari con la madre, quando sarà di nuovo in grado di vederla.»

Mia moglie non esitò nemmeno un secondo. «Per noi va bene,» disse. «I letti ci sono, la pazienza pure.»

Guardai Giulia. «Ti va di stare un po’ da noi, finché la mamma guarisce?»

Lei mi fissò seria. «Ci posso venire anche con Stella?»

Sorrisi. «Stella è ormai di casa.»


Il Gruppo Volontari di cui faccio parte – ex pompieri, ex infermieri, qualche pensionato appassionato di motori, alcuni giovani che si alternano tra lavoro e turni di protezione civile – reagì alla storia in modo che non mi sorprende più, ma che mi commuove ogni volta.

La sera stessa, senza bisogno di grandi discorsi, ci trovammo davanti al palazzo di Elena. C’era chi aveva portato nuovi vetri per la finestra rotta, chi attrezzi, chi solo un paio di mani in più. Pulimmo il soggiorno, sistemammo la porta, togliemmo il vetro a terra, buttammo via le cose irrecuperabili, lasciando l’appartamento in una dignità che non cancellava quello che era successo, ma lo rendeva almeno sopportabile al ritorno.

Qualcuno del gruppo parlò coi vicini, spiegò la situazione senza entrare nei dettagli, chiedendo solo una cosa: «Se vedete qualcosa che non vi convince, chiamate. Noi, il 112, chi volete. Ma non fate finta di non sentire.»

Nessuno degli amici dell’uomo si fece vedere. La notizia dell’arresto, e soprattutto la presenza costante di persone che entravano e uscivano dall’appartamento, probabilmente bastarono per scoraggiarli.

Uno dei miei amici, Paolo, un ex meccanico, propose una cosa che all’inizio sembrò folle e poi divenne naturale: «L’officina vecchia di mio zio, quella accanto al palazzo di Elena, è ancora in affitto. Potremmo prenderla come sede del gruppo. Così siamo sempre lì vicino.»

In meno di un mese, quel piccolo capannone diventò il nostro centro: moto parcheggiate fuori, banco da lavoro dentro, termos di caffè, sedie scompagnate. E una sedia piccola, con il nome “Giulia” scritto con il pennarello.

Dopo l’asilo, Giulia veniva spesso lì con mia moglie. Portava Stella, ormai in convalescenza, e si piazzava su uno sgabello per vedere cosa combinavamo.

«Questo come si chiama?» chiedeva, indicando una chiave inglese.

«Chiave da diciassette,» rispondeva Paolo.

«E questo?» indicava il compressore.

«Quello gonfia le ruote quando sono tristi.»

Rideva. Col tempo, imparò a distinguere cacciaviti, bulloni, freni. Scoprì che la nostra “banda di vecchi” non faceva paura, ma aggiustava cose: biciclette dei bambini del quartiere, passeggini, a volte le tapparelle di qualche signora anziana.

«Perché fate tutte queste cose?» mi chiese un pomeriggio, mentre pulivamo insieme una catena.

«Perché qualcuno una volta ha bussato alla porta di ognuno di noi,» risposi. «E c’era sempre bisogno di una mano. Ora tocca a noi restituire il favore.»


Elena, dopo settimane difficili, tornò a camminare sicura, a parlare senza mal di testa, a ricordare senza confondersi. La prima volta che vide Giulia nel reparto, con Stella nella cesta e noi dietro, scoppiò a piangere.

«Ti avevo detto dei motociclisti, vero?» le disse, accarezzandole i capelli.

Giulia annuì. «Sì. Ho trovato proprio quello giusto. Quello che aggiusta tutto.»

Elena alzò lo sguardo verso di me. «Non so come ringraziarvi,» sussurrò.

«Non serve,» risposi. «Giulia ha fatto la cosa più difficile. Ha avuto il coraggio di uscire nel buio e chiedere aiuto.»

Il processo contro il compagno di Elena arrivò mesi dopo. Non ci furono grandi titoli di giornale, solo pagine di verbali, avvocati, testimonianze. Fu riconosciuto colpevole di maltrattamenti e lesioni gravi. Una condanna che lo tenne lontano per anni. Nel frattempo, Elena seguì un percorso di sostegno psicologico, imparò a riconoscere certi segnali, a non sentirsi in colpa per colpe che non erano sue.

Per un po’ di tempo Giulia rimase da noi in affido, ma con visite frequenti alla madre. Poi, pian piano, Elena fu pronta a riaverla stabile con sé. Nel momento in cui tornò definitivamente a casa, però, una cosa non cambiò: la strada tra l’appartamento di Elena e la nostra officina rimase aperta, percorsa da passetti piccoli e veloci.

«Oggi vado dai miei amici delle moto,» annunciava Giulia spesso al portone. «Dobbiamo controllare se Stella ha ancora paura delle macchine.»

La gatta, ormai rotonda e pigra, la seguiva a distanza prudente, ma sempre presente.


L’anno in cui Giulia compì quattro anni, organizzammo una festa di compleanno nella nostra sede. Non c’erano animatori, solo una trentina di persone: volontari, vicini, infermieri che l’avevano vista all’ospedale, l’assistente sociale Anna.

Avevamo appeso palloncini tra le moto, preparato una torta grande con una piccola moto disegnata con la glassa. Giulia arrivò con un vestitino a fiori e un casco giocattolo in mano.

Quando spegnemmo le candeline, guardai attorno: uomini che avevano passato la vita nei cantieri, sulle ambulanze, nelle caserme, che ora cantavano “Tanti auguri” con gli occhi lucidi. Per una bambina che, qualche mese prima, camminava da sola nella notte con una gatta ferita in braccio.

Elena mi prese in disparte.

«Lei si ricorda ancora di quella notte,» disse piano. «Ma non sogna più solo il rumore delle urla. Sogna il rumore della tua moto. Dice che quando lo sente, sa che non è sola.»

La guardai, senza trovare subito le parole.

«Pensa che da grande vuole aiutare i bambini che hanno paura,» continuò. «Dice che diventerà “una signora delle moto che aggiusta tutto”.»

Sorrisi. «Mi sembra un ottimo mestiere.»

Giulia ci raggiunse di corsa, con un pezzo di torta in mano e la bocca tutta sporca di cioccolato.

«Marco!» gridò. «Quando sarò grande, mi insegni a guidare?»

«Solo se prima impari a metterti il casco come si deve,» risposi, ridendo.

«E mi insegni anche ad aggiustare le cose?»

«Quello soprattutto. Motori, porte, cuori tristi.»

Lei annuì molto seria, come se le avessi fatto un contratto.


Sono passati tre anni da quella notte. Giulia ora ha sette anni. Va a scuola, litiga per le figurine, impara le tabelline. Ma ogni pomeriggio che può, fa un salto in officina. Entra, saluta tutti con un “Ciao ragazzi!”, si lava le mani e chiede: «Che cosa aggiustiamo oggi?»

Stella la segue, un po’ claudicante, con un piccolo collare fatto a mano da uno di noi, con una stellina di metallo che tintinna quando salta giù da una sedia.

Elena lavora part-time in un negozio del quartiere, ha amici nuovi, non chiede più scusa per cose di cui non è responsabile. Quando la vedo passare davanti all’officina e affacciarsi solo per salutare, mi sembra ogni volta un piccolo miracolo quotidiano.

Dell’uomo che una volta la spingeva e urlava non si parla quasi più. Il suo nome resta scritto sui registri di tribunale, non sulle chiacchiere di bar. Quello che invece è rimasto è un’altra cosa: tra di noi volontari è diventata una regola non scritta.

Se qualcuno bussa alla porta, di giorno o di notte, si apre. Sempre.

Non perché dobbiamo fare gli eroi, non perché siamo più bravi degli altri. Ma perché una volta, alle due di notte, ha bussato una bambina di tre anni con una gattina fra le braccia, e ha cambiato la vita di tutti.

Ci ha ricordato perché abbiamo imparato un mestiere, perché mettiamo i giubbotti fluorescenti, perché passiamo le domeniche a montare e smontare motori invece di stare sul divano.

Ci ha mostrato che il coraggio, a volte, pesa solo trenta chili ed è in pigiama, con i piedi freddi e la voce che trema, ma abbastanza forte da dire: «La mamma non si sveglia».

Da quella sera, ogni volta che sento un colpo alla porta, mi alzo. Penso che magari è solo il vicino che ha dimenticato le chiavi, o un ragazzo con la bici bucata. Ma in un angolo del cuore so che potrebbe esserci un altro piccolo eroe, o un’altra storia che ha bisogno di essere aggiustata.

E allora apro.

Perché sì, noi aggiustiamo motori. Ogni tanto, se ci riusciamo, aggiustiamo anche qualcos’altro. Una porta rotta, una cucina in disordine, un po’ di fiducia nel mondo.

Non possiamo sistemare tutto. Ma possiamo provare. Soprattutto quando, nel silenzio della notte, qualcuno bussa piano e chiede aiuto.

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