Stavo facendo rifornimento in un’area di servizio sull’autostrada quando una bambina minuscola, non più di cinque anni, mi si è piantata davanti. Nessuna paura. Solo due occhi scuri enormi che mi fissavano come se io potessi aggiustare il suo mondo rotto.
La nonna era dentro a pagare, convinta che la nipotina fosse ancora vicino all’auto. Non aveva visto che la piccola si era avvicinata al tipo grande, con la barba e le braccia piene di tatuaggi.
Io mi chiamo Marco “Orso” Bellini. Ho sessantadue anni, sono stato pompiere per quasi quarant’anni e adesso gestisco una piccola officina di quartiere con altri ex colleghi e volontari del soccorso.
Sono alto, grosso, spalle larghe, barba grigia fino al petto, mani rovinate dal lavoro e dalle sirene di una vita fa. I bambini, di solito, si nascondono dietro alle mamme quando mi vedono. Questa invece teneva in mano un peluche spellacchiato.
«Lui è il signor Orsetto,» mi ha detto. «Anche lui non ha un papà.»
Prima che potessi rispondere, una signora anziana è corsa fuori dalla porta del bar dell’autogrill, il volto bianco di paura.
«Chiara! CHIARA! Vieni subito via da quell’uomo!»
Ma Chiara non si è mossa. Mi ha afferrato la giacca da lavoro con la mano libera, le dita piccolissime strette nel tessuto.
«Voglio questo, nonna,» ha detto seria. «Lui sembra solo come me.»
La nonna si è fermata di colpo vedendo come Chiara mi si era praticamente incollata addosso. Non spaventata, ma piena di speranza.
«Mi scusi,» ha mormorato cercando di staccarle le dita dalla mia giacca. «Non capisce… per lei è stato un anno… difficile.»
«Il mio papà è in prigione,» ha annunciato Chiara, come se dicesse che domani piove.
«Ha fatto del male alla mamma. Adesso lei è in cielo, lui è nel posto brutto. La nonna piange sempre e io voglio un papà che non faccia male a nessuno.»
Sentivo la gente intorno rallentare, guardare, ma far finta di niente. Come succede spesso quando il dolore degli altri è troppo grande.
La nonna si chiamava Teresa Rinaldi. Sessantotto anni, ex infermiera, improvvisamente diventata mamma di nuovo dopo che suo figlio aveva ucciso la moglie durante una notte di alcol e rabbia mischiati a sostanze che non gli avevano lasciato più cervello.
Si vedeva che era stanca fino alle ossa. Occhiaie profonde, spalle cadute, quel tipo di stanchezza che non passa con una notte di sonno.
«Chiara, amore, non possiamo chiedere queste cose agli sconosciuti…»
«Ma lui non è uno sconosciuto,» ha ribattuto la piccola senza nemmeno guardarla. «Ha gli occhi buoni. Occhi tristi come il signor Orsetto.»
Mi sono inginocchiato per arrivare alla sua altezza, le ginocchia che scricchiolavano come sempre.
«Ciao, piccola. Sono sicuro che la nonna si prende molta cura di te.»
«Lei ci prova,» ha detto Chiara, serissima. «Però è vecchia. Non sa giocare. E non sa come si fa il papà, sa solo come si fa la nonna.»
Teresa ha iniziato a piangere. Lì, in mezzo al piazzale dell’autogrill, questa signora dignitosa si è rotta.
«Sto sbagliando tutto,» singhiozzava. «Non so come spiegare perché suo padre ha fatto quello che ha fatto. Non so essere genitore e nonna insieme. Ho quasi settant’anni. Dovrei riposarmi, non ricominciare da capo con una bambina traumatizzata.»
«La nonna ha sempre bisogno di un pisolino,» mi ha confidato Chiara a bassa voce. «Adesso piange e poi dorme.»
Ho guardato quella bambina che aveva visto cose che nessun bambino dovrebbe vedere, poi la donna che stava annegando in una tempesta più grande di lei.
Ho preso una decisione che avrebbe cambiato le nostre vite.
«Facciamo così,» ho detto a Chiara. «Non posso essere il tuo papà. Ma forse potrei essere il tuo amico. Ti andrebbe bene?»
Chiara ci ha pensato sul serio.
«Gli amici ti insegnano ad aggiustare le ruote della bici?»
«Se vuoi, sì.»
«Gli amici vengono alle feste del tè?»
«Se mi inviti, certo.»
«Gli amici ti proteggono dalle persone cattive?»
Mi si è stretto lo stomaco.
«Sì,» ho risposto piano. «Gli amici veri fanno proprio questo.»
«Allora va bene,» ha deciso. «Tu sei il mio amico. Io mi chiamo Chiara Rinaldi, ho cinque anni e mezzo. Tu come ti chiami?»
«Marco.»
«È difficile. Ti chiamerò signor M.»
Teresa mi ha guardato con un misto di paura e speranza.
«Non vogliamo approfittarne…»
Mi sono alzato, ho tirato fuori il portafoglio e le ho dato un biglietto da visita.
«Ho un’officina qui vicino, nel paese dopo il casello. Si chiama “Officina L’Orso”. Se ha bisogno di qualcosa – di qualcuno che tenga Chiara un pomeriggio, di un passaggio, o solo di parlare con un adulto e non con una bambina – mi chiami.»
«Perché lo farebbe?» ha domandato lei, disorientata.
Ho guardato Chiara, che faceva ciao con il signor Orsetto.
«Perché una volta avevo una figlia anch’io. Adesso avrebbe più di trent’anni, se un guidatore ubriaco non avesse centrato la macchina dove c’erano lei e mia moglie. E perché nessuno dovrebbe crescere un bambino ferito da solo.»
Teresa ha chiamato tre giorni dopo. Non per chiedere aiuto – era troppo orgogliosa – ma perché Chiara parlava del “signor M” dalla mattina alla sera, e non ce la faceva più a rispondere.
«Si può passare in officina per un saluto?»
Quando sono arrivate, non ero solo. C’erano tutti i miei, quelli che chiamo fratelli anche se non abbiamo lo stesso sangue: ex pompieri, ex volontari di soccorso, qualche operaio in pensione che non riesce a stare a casa fermo.
In tutto una dozzina di uomini grandi, con mani segnate e spalle larghe, apparentemente burberi, con giubbotti consumati appesi alle sedie. Per qualcuno da fuori potevamo sembrare un gruppo da evitare.
Chiara è entrata stringendo la mano della nonna. Ci ha visti tutti e le si è illuminato il viso come un albero di Natale.
«Nonna! Il signor M ha un sacco di amici!»
Ha attraversato l’officina senza paura, presentando il signor Orsetto a ognuno. Questi uomini che avevano visto incendi, incidenti, notti infinite, stringevano seri la zampina di stoffa del peluche e si presentavano.
«Io sono Gino.»
«Io sono Paolo.»
«Io sono Sandro.»
«Perfetto,» ha decretato Chiara. «Adesso ho tanti zii.»
«Zii pompieri!» ha aggiunto uno dei miei amici ridendo piano. «Ogni bambina dovrebbe averne almeno tre.»
Così è iniziato tutto.
Il resto della storia l’ho saputo a pezzi nei mesi successivi. Il padre di Chiara, Luca, era stato un ragazzo normale. Lavoro precario, qualche sogno di troppo, poi la spirale: alcol, debiti, persone sbagliate, sostanze. La madre, Elena, aveva provato più volte ad andarsene, ma lui la cercava sempre.
Quella notte aveva perso completamente il controllo. Un urlo, una lite, un gesto che non si può cancellare. Chiara era nascosta dietro una porta, dove la mamma le aveva detto di andare. Ha sentito tutto, ha visto dopo. Da allora i suoi disegni erano pieni di porte chiuse e cuori spezzati.
La psicologa dell’ospedale, qualche settimana dopo, ci ha spiegato la cosa con parole gentili.
«Chiara cerca una figura forte ma sicura,» ha detto a me e a Teresa. «Ha bisogno di un adulto che per lei rappresenti protezione, non pericolo. Il signor Bellini le trasmette questo: è grande, forte, ma con lei è dolce. È una situazione particolare, ma può essere molto positiva.»
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