La bambina che rinunciò alla merenda per ridare suo padre alla strada e a una moto impossibile

La bambina si avvicinò al mio tavolino del bar e mi pregò di insegnare a suo padre a tornare in moto.

«Piange tutte le notti da quando ha perso le gambe nell’incidente» disse piano, come se avesse paura che qualcuno potesse sgridarla per quelle parole troppo grandi per la sua età.
Poi aprì il suo piccolo salvadanaio di plastica a forma di maialino e rovesciò tutto sul tavolo: 4 euro e 70 in monete da venti centesimi, dieci centesimi e qualche spicciolo più vecchio di lei.

«Ma prima che io nascessi correva in moto, faceva le gare… Io ho pensato che magari…» La frase si spense a metà, le lacrime caddero sul tavolino un po’ appiccicoso del bar all’angolo, mentre suo padre restava fuori, nel parcheggio, sulla sedia a rotelle. Troppo orgoglioso per entrare a vedere sua figlia chiedere aiuto a uno sconosciuto che non poteva permettersi di pagare.

Alzai gli occhi verso la vetrata. Lui era lì, leggermente incurvato sulla sedia, lo sguardo fisso sulla mia grossa moto parcheggiata fuori. La guardava con una nostalgia così profonda che quasi faceva male allo stomaco. Avrà avuto trentacinque, forse trentotto anni. Capelli rasati corti, barba incolta di qualche giorno, le protesi ben visibili sotto i pantaloncini estivi. La bambina doveva essergli sfuggita quando lui si era perso, ancora una volta, nel buio dei suoi pensieri.

«Come ti chiami, piccola?» chiesi, spingendo delicatamente le monete verso di lei.

«Mi chiamo Giulia. Quello è il mio papà, Andrea. Non parla più di moto. Dice che quella vita è finita.» Si sporse verso di me, quasi in confidenza. «Ma io l’ho visto al supermercato che guardava le riviste di moto. Le toccava con le dita, piano, come se fossero qualcosa di prezioso.»

Quello che Giulia non sapeva era che io, Lorenzo, sessantadue anni, pensionato dei vigili del fuoco, gestivo una piccola officina alla periferia della città. E da qualche anno mi ero specializzato in moto adattate per persone che avevano perso qualcosa: una gamba, un braccio, l’equilibrio, la fiducia. Ex pompieri, operai, autisti, qualche ex militare, gente normale spezzata da un incidente.

Mi alzai dalla sedia, lasciai dieci euro accanto alla tazzina del caffè. «Tieni i tuoi soldi, Giulia. Ma ho bisogno che tu faccia una cosa per me.»

I suoi occhi si illuminarono di una speranza quasi dolorosa. «Qualsiasi cosa.»

«Vai da tuo papà e digli che Lorenzo Guidi, quello dell’officina in via del Mulino, vuole parlare con lui dei vecchi tempi in pista. Digli che ero amico di Stefano.»

Stefano era stato il migliore amico di Andrea. Nell’incidente in cui Andrea aveva perso le gambe, Stefano non era tornato a casa. Io ero stato il caposquadra dei pompieri arrivati quella notte. Più tardi avevo costruito una moto in memoria di Stefano, su richiesta della moglie.

Giulia corse fuori, stringendo i pochi spiccioli nel pugno. Attraverso il vetro la vidi tirare la manica della felpa del padre, indicarmi con insistenza. L’espressione di Andrea cambiò: prima fastidio, poi sorpresa, poi qualcosa di molto simile alla paura.

Entrò nel bar lentamente, spingendo la sedia a rotelle con gesti abituati ma stanchi. Giulia gli stava dietro, anche se la sedia era elettrica e non aveva bisogno di aiuto. Da vicino, nei suoi occhi riconobbi quello sguardo che avevo già visto tante volte in caserma, dopo gli incendi peggiori. Lo sguardo di chi, dentro, ha già rinunciato.

«Conoscevi Stefano?» La sua voce era ruvida, come se avesse parlato poco per troppo tempo.

«Ero io che guidavo il mezzo quella notte» dissi piano. «E qualche mese dopo ho costruito la sua moto commemorativa. Sua moglie mi ha chiesto di farlo.»

Tirai fuori il telefono e gli mostrai le foto: una grossa moto da turismo, nera, con un piccolo simbolo inciso sul serbatoio e il nome di Stefano lucido sul metallo. Nessun marchio in vista, solo linee pulite e rispetto.

Andrea sfiorò lo schermo con due dita, proprio come Giulia mi aveva raccontato delle riviste. «Diceva sempre che quando avessimo finito con le gare, mi avrebbe insegnato a godermi una moto “vera”, tranquilla. Io ero tutto per le sportive, lui amava queste moto grandi, da strada lunga.»

«Giulia mi ha detto che correvi.»

La sua mascella si irrigidì. «Quella era un’altra vita.»

«Prima che perdessi le gambe?» chiesi. «O prima che perdessi anche la speranza?»

Le sue mani strinsero con forza i braccioli della sedia. «Che ne sa lei?»

«So che ti svegli di notte pensando alle curve. So che ti manca sentire il motore che vibra sotto di te. Lo so perché ho visto la stessa faccia su tanti uomini e donne che credevano di aver chiuso per sempre con la strada. E invece…»
Tirai fuori un secondo telefono, quello che usavo in officina, e aprii una cartella piena di video.

Uno dopo l’altro, gli mostrai persone con protesi, sedie a rotelle, braccia mancanti, che salivano su moto adattate. Alcuni su tre ruote, altri con comandi al manubrio, altri ancora con sistemi di stabilizzazione. In tutti, però, la stessa cosa: sul volto, una luce che non si può finta­re.

«Sono solo video fatti per far piangere la gente su internet» mormorò Andrea, ma gli occhi non si staccavano dallo schermo.

«Papà!» protestò Giulia. «Non dire parolacce…»

«Questo è Paolo,» continuai, senza dare peso alla sua frase. «Ha perso tre arti in un incidente sul lavoro. Adesso guida un trike con tutti i comandi sulle mani. L’anno scorso ha fatto un giro di centinaia di chilometri con un’associazione di volontariato.»

Passai a un altro video. «Questa è Anna. È paraplegica da dieci anni. Viaggia su una moto speciale con tre ruote e sedile basso. Ha attraversato mezza Italia.»

«Basta» disse Andrea, quasi sussurrando. «Ti prego.»

Ma Giulia afferrò il telefono con decisione. «Papà, guarda! Stanno tutti andando in moto! Anche tu potresti!»

«Con quali soldi, Giulia?» sbottò lui all’improvviso. «Credi che la pensione di invalidità paghi anche le moto? Credi che esistano bonus per i sogni? Quella vita è finita, devi capirlo.»

Il labbro di Giulia tremò. Poi, senza una parola, spinse di nuovo le sue monetine verso di me. «Allora risparmierò di più. Non prenderò più la merenda a scuola. Non comprerò più le figurine. Metterò via tutto finché…»

Andrea la fissò, improvvisamente pallido. «Non prendi la merenda?» La voce gli uscì bassa, tesa. «Da quanto?»

Lei fece spallucce. «Non importa. Tu hai più bisogno della moto che io del panino.»

Andrea si spezzò in quel momento.
Nel mezzo di quel bar con i tavoli storti e il bancone di marmo consumato, questo uomo che aveva resistito all’incidente, alle operazioni, alla riabilitazione infinita, crollò davanti a quattro euro e settanta e a una bambina che sacrificava la sua merenda.

«Amore mio» sussurrò, tirandola sulle sue ginocchia. «Che cosa ti sto facendo? Che cosa ti ho fatto?»

Li lasciai abbracciarsi, poi mi schiarii la voce.

«Andrea, adesso devo dirti una cosa, e vorrei che tu mi ascoltassi davvero.»

Alzò gli occhi verso di me, pieni di lacrime.

«Ogni moto che ho preparato per persone come te è stata gratuita. Tutte. Pagate da raccolte fondi, giri benefici, collette di vecchi motociclisti che sanno cosa significa aver bisogno di un po’ di vento in faccia. La tua moto… quella che io chiamo “il fratello di Stefano” … è già nella mia officina. Da sei mesi. Sta aspettando solo te.»

Andrea mi guardò come se avessi parlato in un’altra lingua. «Cosa?»

«La moglie di Stefano mi ha chiesto due moto. Una per ricordarlo, l’altra per il suo amico che era rimasto. Ti chiama così: “il fratello che è sopravvissuto”. Ha pagato tutto. Ha detto che quando saresti stato pronto, avresti trovato da solo la strada.»

«Ma io non posso più guidare» ripeté lui automaticamente, con meno convinzione di prima.

«Non puoi guidare come prima» lo corressi. «Ma puoi guidare. Ci sono comandi al manubrio, un sistema di stabilizzazione, una sella adattata per le protesi. È tutto già lì. Ti aspetta.»

Giulia saltava sulle sue ginocchia, agitata come se non riuscisse a contenere il corpo. «Papà, ti prego! Ti prego!»

«Sono passati tre anni» mormorò lui. «Non mi ricordo nemmeno più…»

«Altroché se ti ricordi» lo interruppi. «Te lo ricordi in ogni osso, anche in quelli che non ci sono più. Ogni marcia, ogni curva, ogni rettilineo. Il corpo è cambiato, ma quello che eri non è sparito. È solo sepolto.»

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