La bambina che rinunciò alla merenda per ridare suo padre alla strada e a una moto impossibile

Lasciai un biglietto da visita sul tavolo. «Sabato mattina l’officina è aperta. Porta Giulia. Non ti chiedo di guidare. Solo di toccare la moto. Tutto qui.»

Feci per andarmene, poi mi voltai verso la bambina. «Giulia? Tuo papà avrà bisogno di qualcuno che lo aiuti durante le lezioni con la moto nuova. Pensi di poter fare l’assistente? Io di solito aiuto i ragazzi che mi danno una mano con venti euro a volta.»

Gli occhi di Giulia si spalancarono. «Potrei aiutare papà e guadagnare soldi?»

«Se lui avrà il coraggio di provare.»

Li lasciai lì, Andrea che stringeva la figlia, lo sguardo fisso sul mio biglietto come se fosse una bomba inesplosa.


Sabato arrivò. A essere sincero, pensavo che non sarebbero venuti. Ma alle dieci in punto vidi una sedia a rotelle fermarsi davanti all’officina. Andrea. Accanto a lui, Giulia, con un casco troppo grande pieno di adesivi brillanti a forma di stelle e cuori.

Dentro l’officina c’era movimento. Il sabato era sempre così: motori smontati, chiavi inglesi ovunque, radio accesa piano, gente che rideva nonostante le cicatrici. Alcuni si esercitavano a salire e scendere dalle moto, altri pulivano, altri ancora guardavano soltanto.

Andrea si bloccò sulla soglia, gli occhi persi tra il rumore dei compressori e l’odore d’olio. Ma gli altri non lo fissarono con pietà. Si limitarono a salutarlo con la testa, come si fa tra persone che conoscono lo stesso tipo di dolore.

«Papà, vieni!» Giulia corse verso il fondo, dove tenevo i mezzi adattati.

Andrea avanzò piano, guidando la sedia tra i cavalletti e le ruote smontate. Si fermò solo quando la vide.

Una grande moto da turismo, nera opaca, con qualche dettaglio discreto color rosso scuro. A prima vista sembrava una moto qualsiasi. Solo guardando meglio si vedevano i comandi speciali al manubrio, la sella sagomata, i piccoli supporti che si aprivano per tenerla in piedi quando si fermava.

«È… è per me?» La sua voce era quasi un soffio.

«Se la vuoi. La moglie di Stefano ha già pagato. C’è anche l’assicurazione per il primo anno. Devi solo decidere di imparare a usarla.»

Andrea allungò una mano tremante e toccò il serbatoio. In quell’istante il suo viso cambiò. Non dico che sia tornato il ragazzo di vent’anni che correva in pista, ma qualcosa si accese. Una scintilla.

«È bellissima» mormorò.

«Papà, siediti!» Giulia quasi saltava da quanto era emozionata.

«Non posso così, di colpo…»

«Certo che puoi» disse alle sue spalle una voce calma.
Era Paolo, quello del video. Si avvicinò con la sua sedia a rotelle, sereno. «La prima volta è la più difficile. Dopo, è solo una questione di pratica.»

Quella fu forse l’ora più bella che abbia mai vissuto in officina. Gente che Andrea non aveva mai visto iniziò a raccontargli le proprie storie: un incidente in montagna, un crollo in fabbrica, una malattia. Nessuno faceva prediche. Solo fatti, mani che aiutavano, consigli pratici.

Lo sollevarono con calma sulla sella, aggiustarono le pedane, provarono la posizione dei comandi. Gli spiegai come funzionavano il freno, l’acceleratore, il sistema che teneva la moto dritta quando si fermava.

Giulia stava accanto a me, le lacrime che le scendevano senza che lei se ne accorgesse.

«Sta sorridendo» sussurrò. «Non lo vedevo sorridere così da… non lo so, da prima dell’incidente.»

«Vuoi sapere un segreto?» le dissi. Lei annuì. «Lo hanno salvato i tuoi soldi della merenda. Non per l’importo, ma perché hai rinunciato a qualcosa per lui. Hai acceso una luce dove lui vedeva solo buio.»

Lei mi abbracciò la gamba così forte che quasi perdevo l’equilibrio.

Andrea rimase in officina sei ore quel giorno. Alla fine riusciva ad accendere il motore da solo, sentiva il rombo, faceva piccoli movimenti avanti e indietro con l’aiuto del sistema di stabilizzazione. Non era ancora la strada, ma non era più il parcheggio del supermercato.


I mesi successivi furono fatti di prove, pazienza e piccoli fallimenti.
Due volte alla settimana Andrea veniva da me. Giulia non mancava mai: portava biscotti fatti in casa, raccontava scherzi, teneva il conto delle “prime volte” su un quaderno sgualcito.

Dai giri nel cortile dell’officina passammo alle stradine di campagna, poi a qualche tratto un po’ più lungo. Pianissimo, senza fare gli eroi. Solo recuperando un pezzo alla volta.

Il giorno in cui fece il suo primo giro da solo – un anello di pochi chilometri che faceva sempre prima dell’incidente – Giulia ed io lo aspettammo davanti all’officina. Lei indossava una giacca di pelle troppo grande che le arrivava quasi alle ginocchia. Gliel’avevo regalata io: «Troppo larga adesso, perfetta tra qualche anno» le avevo detto.

Quando Andrea tornò, il casco alzato e il viso bagnato, ci guardò e scoppiò a piangere. Ma erano lacrime diverse, pulite.

«L’ho sentito» mi disse. «Stefano. Era lì con me. Come se mi avesse finalmente portato a fare quel giro tranquillo che mi prometteva sempre.»

Tre mesi dopo, Andrea partecipò alla sua prima uscita benefica: un centinaio di chilometri per raccogliere fondi per un’associazione che aiuta persone con disabilità. Giulia viaggiò sul sellino dietro di me, accanto a suo padre, salutando chiunque incontrasse. La bambina che aveva cercato di comprare la speranza con quattro euro e settanta di monetine.

Di quella giornata, c’è una foto che tengo sempre in officina. Andrea in moto, Giulia dietro che ride a bocca aperta, il vento che le strappa i capelli dal casco. Nessuno direbbe che qualche tempo prima lui non voleva nemmeno uscire di casa.

Quella corsa è successa due anni fa.

Oggi Andrea lavora con me in officina. Insegna ad altri come lui a salire sulle moto adattate, ha pazienza con chi ha paura, sa quando parlare e quando stare zitto. Dice che ogni volta che vede qualcuno accendere il motore per la prima volta si sente come quel sabato davanti alla sua moto nera.

Giulia, che ora ha dieci anni, tiene in officina una cornice appesa al muro. Dentro ci sono le monetine del suo salvadanaio, ben incollate su un foglio bianco. Sopra ha scritto con la sua calligrafia un po’ storta:
“Il miglior investimento della mia vita.”

E ogni sabato, quando una persona nuova attraversa la porta dell’officina convinta che la propria strada sia finita per sempre, Andrea racconta la storia della bambina che aveva deciso di rinunciare alla merenda pur di ridare a suo padre un pezzo di cielo.

Poi li accompagna verso il fondo, dove c’è sempre una moto che aspetta. Perché, ormai, non preparo più solo un mezzo alla volta. Grazie alle donazioni dei giri che organizziamo e alla generosità di chi ha ritrovato sé stesso su due o tre ruote, in officina c’è sempre “una moto che aspetta qualcuno”.

Quest’estate Andrea percorrerà l’Italia quasi per intero. Montagne, pianura, un po’ di mare. Giulia sarà seduta dietro di lui, con il casco pieno di adesivi glitterati, a contare i tramonti e le albe.
Le monetine nella cornice resteranno lì, sul muro, ma il loro valore è cresciuto oltre ogni numero.

Perché questo possono comprare 4 euro e 70 di spiccioli, quando vengono dati con amore puro: la resurrezione di un padre, una vita restituita a se stessa, e la prova che a volte gli angeli portano lo zaino delle elementari e pagano i miracoli con i soldi della merenda.

Qualche giorno fa, Giulia mi ha chiesto perché li avevo aiutati, quel primo giorno al bar. Perché non avevo preso semplicemente i soldi e poi l’avevo mandata via con una scusa gentile.

«Perché» le ho risposto, «quarant’anni fa io ero tuo padre. Non avevo perso le gambe, ma avevo perso la voglia di vivere dopo un incendio finito male. E una bambina poco più grande di te – mia figlia – vendette la sua bicicletta per comprarmi i pezzi per rimettere in sesto la mia vecchia moto. Credeva che, se fossi riuscito ad aggiustare la moto, avrei potuto aggiustare anche un po’ di me stesso.»

«E ha funzionato?» mi ha chiesto, guardandosi intorno.

Ho indicato l’officina piena di persone che lavoravano sulle moto, la parete coperta di foto di chi era tornato in strada, Andrea che in quel momento stava spiegando a un ragazzo con una sola gamba come salire in sicurezza.

«Che dici, Giulia? Sei tu a dirmelo.»

Lei ha sorriso, lo stesso sorriso che aveva salvato suo padre al tavolino di quel bar. «Secondo me sì. Ha funzionato.»

Ed è vero.
Ha funzionato.
Monetina dopo monetina. Moto dopo moto. Cuore dopo cuore.

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