La bambina muta che fermò un camionista italiano con un disegno e cambiò per sempre il suo destino

“Sandro? Sono Giorgio.”

“Dimmi, vecchio lupo.”

“Ti serve una scusa per saltare il pranzo?” cercai di scherzare, ma la voce mi tremava. “Ho bisogno di te. E degli altri. Subito. Nell’area di servizio sulla provinciale, quella con il bar giallo scrostato. È urgente. Niente domande. E Sandro… porta tutti. È questione di vita o di morte.”

Silenzio. Poi solo: “Arriviamo.”

Chiusi la chiamata.

La bambina mi fissava. Sempre muta. Sempre terrorizzata.
Ma negli occhi le era comparsa un’ombra diversa.
Una cosa che sembrava quasi impossibile lì, in mezzo al piazzale sporco.

Speranza.

Mi accovacciai per essere alla sua altezza. Le parlai piano.

“Come ti chiami, piccola?”

Lei non rispose.
Ovviamente.
Per qualche motivo non parlava.

Poi indicò qualcosa sul vestito.
Solo allora vidi una piccola etichetta cucita di lato, scolorita, quasi illeggibile.

Lessi a fatica: “Lina.”

“Lina…” ripetei. “Bello.”
Mi indicai. “Io sono Giorgio.”

Le porsi la mano, come si fa tra grandi.
Esitò un secondo e poi la strinse.

“Ti prometto che ti aiuto, Lina.”


Quindici minuti dopo, l’area di servizio tremava.

Non erano rombi di moto, ma di camion e furgoni.
Dodici tir e alcuni furgoncini bianchi entrarono uno dopo l’altro, parcheggiandosi alla meglio.

La nostra cooperativa.
“I Lupi della Strada”.

Sandro scese dal suo camion facendo scricchiolare la scaletta.
Dietro di lui c’erano Bruno, il più grosso di tutti, detto “Orso”; Luigi, che tutti chiamavamo “Dottore” perché in missione era stato infermiere militare; e poi altri dieci colleghi con cui avevo condiviso turni infiniti e notti di nebbia.

Le poche famiglie presenti non ci misero molto a capire che era meglio andarsene.
Nel giro di due minuti il piazzale si svuotò.

Mostrai a Sandro il disegno.
Lo vidi cambiare espressione.

“Dottore,” chiamò subito, “dai un’occhiata alla bambina.”

Luigi si avvicinò a Lina con una calma che non gli avevo mai visto.
Si mise in ginocchio, le parlò piano, le chiese il permesso con lo sguardo prima di sfiorarle le braccia.
Lei lo lasciò fare.

Lui guardò i lividi, i tagli, la pelle arrossata.
Serrava la mascella ogni volta che trovava un segno nuovo.

“È stata maltrattata,” disse a bassa voce. “Più volte. I lividi hanno età diverse. Qualcuno le fa del male da tempo.”

“Chiamiamo subito la polizia?” chiese Bruno.

Gli mostrai la figurina col distintivo.

“Forse prima capiamo bene,” dissi.


Sandro studiò il disegno.

“Questa casa… è quella che hai visto tornando?”

“Credo di sì. Cinque, sei chilometri più indietro. Muri scrostati, un capanno di legno a sinistra.”

“Potrebbe essere uno scherzo. O un delirio,” borbottò Bruno. “O una trappola.”

Guardai Lina.
Si era aggrappata alla mia gamba, come se fosse l’unico punto fermo che avesse. Tremava tutta.

“Ti sembra uno scherzo?” chiesi piano.

Sandro scosse la testa.

“Va bene.” Si voltò verso gli altri. “Facciamo così: tre restano qui a controllare la strada. Se arriva qualcuno, soprattutto se in divisa, lo fermate con una scusa. Niente scenate, niente botte, solo tempo guadagnato. Gli altri vengono con noi alla casa. Dottore, tu cosa fai?”

“Resto con la bambina,” rispose Luigi.

Lina, appena lo sentì, fece un verso strozzato, quasi un gemito.
Si aggrappò a me ancora più forte e scosse la testa.

“Viene con noi,” dissi. “È l’unica che sa esattamente dov’è.”

“Giorgio…” Sandro esitò. “È pericoloso.”

“Pericoloso è lasciarla qui da sola. O far finta di non aver visto.”

Ci guardammo negli occhi per un lungo secondo. Alla fine sospirò.

“D’accordo. Ma la tieni tu. E alla minima cosa strana te ne vai via con lei, chiaro?”

“Chiaro.”


La casa era esattamente dove la ricordavo.
Un casale isolato, nascosto tra gli alberi di una strada secondaria quasi deserta.
Finestre rotte. Porta sfondata. Il capanno di legno a sinistra, con il tetto storto.

Parcheggiammo i camion più lontano, per non farci sentire.
Continuammo a piedi.

Lina era sulle mie spalle.
Con il dito indicava la strada, poi il sentiero, poi il retro della casa.

Dietro il capanno, il terreno era diverso.
La terra era smossa.
Un piccolo rilievo, come una collina in miniatura.

“Madonna santa…” sussurrò Bruno.

Lina indicò quel punto.
Le lacrime le scendevano sul viso, ma non emetteva alcun suono. Il corpo le tremava come una foglia.

“Dobbiamo chiamare subito la polizia,” disse Sandro.

Stavo annuendo quando Lina mi tirò la manica.
Indicò il tumulo.
Poi la casa.
Poi fece il gesto alla gola.
Poi alzò un dito.
Poi indicò se stessa.

“C’è un altro bambino in casa?” chiesi, cercando di interpretare.

Scosse la testa.
Indicò di nuovo se stessa, poi il gesto della gola, poi di nuovo un dito alzato.

“Sta tornando per te?”

Annì forte.
Poi mostrò di nuovo l’uno con le dita.

“Alle una? Alle undici?” provai.

Indicò il mio orologio.
Le lancette segnavano le dieci del mattino.

“Alle undici…” mormorai. “Manca meno di un’ora.”

Sandro tirò fuori il telefono.

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