La bambina muta che fermò un camionista italiano con un disegno e cambiò per sempre il suo destino

“Chiamo lo stesso il 112. Devono venire qui, con la scientifica, i servizi sociali, tutti.”

Stava componendo quando si sentì un motore.

Un’auto stava salendo piano dalla strada.

Lina si irrigidì sulle mie spalle.
Puntò il dito verso la macchina.
Poi, ancora, fece il gesto del distintivo.

Era una berlina scura. Non una pattuglia con i colori ufficiali, ma una di quelle auto grigie che riconosci subito come “di servizio”.

“Nascondetevi dietro al capanno,” sussurrò Sandro.

Ci muovemmo in silenzio.

Ma Lina no.
Scese dalle mie spalle, mi scivolò dalle mani e si avviò verso il fronte della casa.
In piena vista.

“Lina, no!”


L’auto si fermò davanti alla casa.
Ne scese un uomo in uniforme.
Quaranta, quarantacinque anni.
Capelli corti, ben rasati.
Viso pulito, da bravo padre di famiglia.
Una pistola al fianco.
Il tesserino che spuntava dalla tasca.

“Lina! Eccoti qui, piccolina!”
La sua voce era dolce, quasi affettuosa. “Ti hanno cercata tutti. Non si fa, scappare così.”

Si avvicinava a passi lenti, le braccia leggermente aperte, come per un abbraccio.

Lina arretrava.
Passo dopo passo si avvicinava al capanno.
A noi.

“Su, andiamo a casa. Il tuo papà affidatario è preoccupato da morire.”

Papà affidatario.
Il poliziotto era il suo padre affidatario.

L’uomo la seguì.
Fece il giro del capanno.
E vide la terra smossa.

Per un secondo si bloccò.
Il viso cambiò.
La maschera cadde.

“Brutta piccola infame,” sibilò. “Hai portato qualcuno qui?”

La mano scese verso la pistola.

In quel momento quindici camionisti uscirono da dietro il capanno.

“Io non lo farei,” disse Sandro, con una calma che non aveva niente di tranquillo.

La mano del poliziotto rimase sospesa.

“Non capite,” sbottò. “Sono un agente. La bambina è disturbata. Si inventa le cose. Viene da una famiglia difficile, è stata traumatizzata…”

“È muta,” dissi. “Difficile inventarsi storie, senza voce.”

“Non è muta! Si ostina a non parlare. Da quando sua sorella è scappata…”

“Scappata?” Bruno si avvicinò al tumulo. “È così che chiami questo?”

L’uomo impallidì. Poi arrossì.

“Non sapete di cosa state parlando. Quella lì è terra smossa per via dei lavori. La bambina è confusa. La madre era piena di problemi, nessuno le voleva, io le ho accolte in casa quando nessun altro lo faceva…”

Lina muoveva le mani, facendo segni che non capivo.
Ma il messaggio era chiaro: stava mentendo.

“Ecco cosa succede, adesso,” disse Sandro. “Posi l’arma per terra. Piano. Poi ti siedi lì e aspetti. Chiameremo noi i tuoi colleghi. Quelli veri.”

“Io sono un vero poliziotto!” urlò.

“No,” risposi. “I veri poliziotti non seppelliscono le bambine.”

Si mosse più veloce di quanto pensassi.
La pistola era quasi fuori dalla fondina quando Bruno e altri due gli furono addosso.
Caddero a terra in un groviglio di braccia e gambe. L’arma volò via sull’erba.

Lui urlava di denunce, di prigione, di errori giudiziari.
Diceva che non capivamo niente, che avremmo rovinato la vita a un innocente.

Lina si avvicinò.
Guardò l’uomo steso, tenuto fermo a fatica.
Sul viso non c’era più paura, solo rabbia.
Una rabbia antica, troppo grande per una bambina così piccola.

E fece una cosa che mi si è incisa nel cuore.

Gli sputò in faccia.

Un gesto minuscolo, ma pieno di tutto il dolore che aveva dentro.

Poi andò a sedersi accanto al tumulo di terra.
Ci appoggiò sopra la mano.
Abbassò la testa.

E per la prima volta, fece un suono.

Un urlo lungo, spezzato, un lamento che sembrava salire da un posto profondissimo.
Non veniva solo dalla gola, veniva dall’anima.
Il suono di un cuore che si rompe.

Il saluto di una sorellina alla sorella che non c’era più.


La polizia arrivò mezz’ora dopo.
Tre pattuglie, un’auto con il comandante, poi via via altre macchine.
L’uomo – Ispettore Marco Bianchi, così si chiamava – tentò di raccontare che eravamo stati noi ad aggredirlo.
Che la bambina era pericolosa.
Che aveva problemi mentali.

Poi videro il disegno.
Videro la terra smossa.
Videro i lividi sulle braccia di Lina.

La faccia del comandante cambiò.

“Marco… che cosa hai fatto?” chiese solo.

“Erano bambine difficili!” gridò lui. “La madre era piena di problemi, nessuno le voleva! Io le ho prese con me! Ho dato loro una casa, un letto, vestiti! E adesso mi trattate così?”

“Che cosa c’è sotto la terra?” chiese il comandante.

Silenzio.
Poi le solite frasi: “Voglio un avvocato. Non dico altro.”

Scavarono con delicatezza.
Arrivarono i tecnici, gli investigatori, i servizi sociali, il medico legale.

La sorella di Lina – Sara, nove anni – era lì sotto.
Da tre giorni.
Picchiata. E altro che non voglio descrivere.
Cose che ti fanno dubitare del genere umano.

I medici poi scoprirono che Lina non era muta per scelta.
Aveva subito un trauma alla gola.
La laringe parzialmente schiacciata.
Non poteva parlare, anche se avesse voluto.

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