La bambina mi si è aggrappata alla giacca per venti minuti nel supermercato, mentre sua madre le urlava di “smetterla di disturbare quel vecchio sporco”.
E tutti pensavano che il problema fossi io.
L’ho notata appena entrato – non perché mi stesse seguendo, ma per i lividi sulle braccia, che la madre cercava continuamente di coprire tirandole giù le maniche del golfino.
La bambina non diceva una parola. Piccola, magrissima, i capelli castani raccolti in una coda storta, gli occhi grandi, scuri, sempre su di me. Si attaccava alla mia vecchia giacca da vigile del fuoco come se fosse un salvagente.
Io sono Gianni, 58 anni, ex vigile del fuoco in pensione. Grande, spalle larghe, barba bianca, qualche tatuaggio vecchio di trent’anni e una moto troppo rumorosa per un uomo della mia età. I ragazzini mi fissano, le mamme per bene stringono la borsa.
Sono abituato agli sguardi.
Quella mattina, però, qualcosa era diverso.
La madre le strattonava il braccio.
“Lascia stare quell’uomo, hai capito? Non vedi com’è? Vieni qui, subito.”
Ogni volta che la prendeva, la bambina sobbalzava. E ogni volta io intravedevo, sotto la manica che scivolava un attimo, ombre viola e giallastre sul polso, sul gomito. Troppi lividi per una bambina che, a occhio, non arrivava a sette anni.
Gli altri clienti guardavano la scena, qualcuno tirava fuori il telefono e cominciava a filmare.
Per loro ero il “tipo con la moto”, quello con la faccia da vecchio frequentatore di bar di periferia che stava facendo spaventare una bambina “sensibile”.
Sentivo i mormorii:
“Poverina, è una bimba speciale…”
“E quello lì, guarda com’è messo…”
Quando sei grande, tatuato e un po’ ruvido, la gente decide subito chi sei.
La bambina, però, non sembrava avere paura di me. Anzi.
Mi stava addosso come se volesse entrarci, dentro la mia giacca.
Ad un certo punto, mentre io fingevo di scegliere la pasta in offerta, sentii la sua piccola mano infilarsi nella tasca interna del mio giubbotto. Un gesto rapido, deciso. Poi tornò a stringermi la manica.
Non ci feci caso subito. Solo alla cassa, quando cercai il portafoglio, le mie dita toccarono qualcosa di diverso.
Un piccolo quaderno.
Rosa, copertina morbida, piena di adesivi di unicorni e stelline. Quelli che compri nelle cartolerie per far felici i bambini alle elementari.
Lo aprii di istinto.
Sulla prima pagina, scritto con il pastello a cera, c’erano quattro parole, storte ma chiarissime:
“Ci fa male. Aiuto.”
Mi si gelò il sangue.
Voltai pagina.
Disegni. Omini a stecchino, ma abbastanza chiari.
Un uomo grande, con in mano qualcosa che sembrava una cintura o un bastone.
Una donna che piangeva.
Una bambina per terra, con lacrime blu che le scendevano dal viso.
Sotto, in lettere tremanti:
“Non mamma. Il compagno. Per favore.”
Alzai lo sguardo.
La madre stava ancora urlando, adesso chiamava a gran voce un addetto del supermercato.
“Qualcuno chiami la sicurezza! Questa bambina non la smette di dar fastidio a quest’uomo, guardate com’è! Non è normale!”
E io all’improvviso capii.
La bambina non mi seguiva perché le piacevano le moto.
Mi seguiva perché stava chiedendo aiuto. E non poteva farlo con la voce.
Mi abbassai alla sua altezza, ignorando il “Stia lontano da mia figlia!” della madre.
“Ehi, piccola,” dissi piano. “Come ti chiami?”
Nessuna risposta. Solo quegli occhi enormi, lucidi.
Lei indicò il quaderno. Lo rigirai. Sulla parte interna della copertina, con la stessa calligrafia un po’ storta, c’era scritto:
“Emma”.
“Sai, Emma è un nome bellissimo,” mormorai. “Io mi chiamo Gianni. Ma tutti mi chiamano Orso.”
Qualche collega, tanti anni fa, aveva deciso che ero grosso come un orso. Il soprannome era rimasto, assieme alle cicatrici.
La madre le afferrò il braccio con forza. Stavolta vidi bene le dita che affondavano nella pelle.
“Andiamo. Adesso. Subito.”
Mi alzai lentamente.
“Signora,” dissi con calma, “sua figlia sembra molto agitata. Forse potremmo—”
“Forse lei potrebbe farsi i fatti suoi,” mi tagliò corto.
Aveva gli occhi spalancati. Ma non di paura di me.
C’era altro. Un’ombra più profonda.
Emma riuscì a liberarsi con uno strattone e si nascose dietro la mia schiena, stringendo la mia giacca con due mani. La madre impallidì.
“Emma, ti prego,” sussurrò adesso, e nella sua voce sentii chiaramente il terrore. “Dobbiamo andare. Ci sta aspettando.”
Ci sta aspettando.
Mi si chiuse lo stomaco.
Abbassai di nuovo lo sguardo sul quaderno. Emma lo strappò delicatamente dalle mie mani, lo aprì a metà e indicò un altro disegno.
Un orologio. Le lancette segnate sulle due.
Accanto, un quadratino che poteva essere una tombetta, con due omini piccoli vicino e una croce.
“Sono le due?” chiesi piano. “Ha detto le due?”
Emma annuì freneticamente, con gli occhi pieni di lacrime.
La madre cominciò a singhiozzare.
“Lei non capisce,” sussurrò. “Se non siamo fuori entro le due… si arrabbia. Non vuole che parliamo con nessuno. Non vuole che Emma guardi altri uomini. La prego, ci lasci andare.”
Guardai l’orologio al polso. Le 13:00 precise.
“Dov’è?” chiesi.
“Nel parcheggio. Nel furgone. Ci vede dalle vetrate. Se non arriviamo, entra.”
Emma mi tirò la giacca e indicò verso l’uscita. Attraverso le porte automatiche vidi un furgone bianco, il motore acceso, fermo in un angolo lontano dalle telecamere.
Una sagoma scura al posto di guida. Immobile.
Che guardava dentro.
Presi il cellulare per chiamare i carabinieri. La madre, con un gesto istintivo, mi colpì la mano e il telefono cadde a terra.
“No carabinieri!” disse quasi gridando. “Lui ci ha detto che se arrivano, succede come con la sua ex. Dicono che è stata una disgrazia, ma…”
Non finì la frase.
Non avevo bisogno degli altri dettagli.
Raccolsi il telefono.
“Signora, se è pericoloso, proprio per questo—”
“Lui sa dove tagliare le telecamere, dove parcheggiare. Sa come parlare. Lei non lo conosce.”
Io, però, avevo passato trent’anni a entrare in case in fiamme, scale che crollavano, incidenti impossibili. Non era la prima volta che vedevo lo sguardo di qualcuno che vive sotto minaccia.
E lo vedevo in quella donna. E in quella bambina.
Mi chinai di nuovo verso Emma.
“Ti piacciono le moto?” le chiesi a bassa voce.
Per la prima volta, un guizzo luminoso attraversò il suo viso. Annì forte, quasi con foga.
“Il mio vecchio rottame è parcheggiato proprio lì fuori,” dissi, indicando con il mento. “È nera, fa un rumore terribile. Vuoi vederla da vicino?”
La madre spalancò gli occhi.
“No, la prego, non posso… lui se ci vede con lei…”
“Signora,” la interruppi, ancora calmo ma fermo, “da soli con lui siete in pericolo. Con me, in mezzo alla gente, almeno c’è qualcuno che guarda. Si fidi di me per cinque minuti.”
Non era una promessa da poco.
Quando hai visto andare male persone che si erano fidate, pesi ogni parola.
Emma, però, non aspettava più. Mi prese la mano e la strinse, forte sorprendentemente per una bambina così minuta. La madre segui, tremando, come se ogni passo verso l’uscita fosse un tradimento.
Appena mettemmo piede nel parcheggio, vidi il furgone bianco muoversi. Il motore accelerò leggermente. La porta del lato guida si aprì.
Ne scese un uomo alto, grosso, muscoloso nel modo nervoso di chi vive teso. Braccia tatuate alla buona, maglietta nera, mascella serrata.
“Che sarebbe ‘sta storia?” ringhiò, avvicinandosi. “Chi è questo?”
“Emma voleva vedere la mia moto,” dissi con naturalezza, come se stessi spiegando un capriccio qualsiasi. “Ho pensato di accontentarla.”
“Ho detto che vi aspettavo nel furgone,” rispose lui, gli occhi di ghiaccio fissi sulla donna. “Adesso. Tutti dentro.”
Emma mi si strinse ancora più addosso. La madre tremava.
Era il momento di fare qualcosa che li avrebbe salvati o avrebbe messo nei guai tutti noi.
Mi girai verso la mia vecchia moto nera, parcheggiata a tre posti di distanza dal loro furgone. Salìi in sella con un movimento lento, teatrale quasi, senza mai distogliere lo sguardo dall’uomo.
Girò la chiave.
Il motore ruggì. Un suono grosso, profondo, che rimbalzò contro le pareti del supermercato e fece voltare mezzo parcheggio.
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