La Bambina Nel Sacco Nero: La Notte In Cui Un Biker Cambiò Un Destino

Il carabiniere, un ragazzo sui venticinque anni, ha scosso la testa. «Sono strade pericolose anche con il sole.»

«Lei non aveva il tempo di aspettare il sole.»

Mi hanno tenuto lì per ore. Domande. Moduli da firmare. Ma nessuno mi diceva come stava la bambina.

Finalmente, verso le sette del mattino, è arrivata una dottoressa. Sui cinquanta, occhi stanchi ma buoni.

«Signor Rinaldi? La bambina che ha portato…»

Ho sentito il cuore stringersi.

«È viva. È in ipotermia. Possibili infezioni. Ma è viva. Lei le ha salvato la vita. Un’ora in più, forse meno, e parleremmo di altro.»

Ho pianto. Un vecchio motociclista di sessantanove anni, uno che ha sempre fatto il duro. Ero seduto su quella sedia di plastica e singhiozzavo come un bambino.

«Posso vederla?»

«È un parente?»

«Sono l’unico che si è preoccupato se vivesse o morisse.»

La dottoressa mi ha guardato. Questo vecchio in pelle e tatuaggi, tutto quello che la gente pensa non appartenga a un reparto neonatale.

«Venga.»

La terapia intensiva neonatale era piena di macchine e lettini minuscoli. Lei era in un’incubatrice. Fili. Tubicini. Ma respirava. Rosa, non più blu.

«È una combattente,» ha detto l’infermiera. «Forte, per essere prematura.»

«Prematura?»

«Almeno tre settimane in anticipo. Probabilmente la madre ha avuto un parto improvviso, senza preparazione.»

«Non è una scusa per buttare via un bambino.»

«No. Non lo è.»

Sono rimasto lì, a guardarla respirare. Quella minuscola creatura che avevo tirato fuori dall’immondizia. Ha aperto gli occhi. Non metteva a fuoco, troppo piccola. Ma quando le parlavo, si girava verso la mia voce.

«Ehi, piccola guerriera. Ce l’hai fatta. Te l’avevo detto.»

Hanno trovato la madre due giorni dopo. Una ragazza di sedici anni. Gravidanza nascosta. Parto da sola in un bagno. Panico. La peggior decisione della sua vita.

L’hanno denunciata, ma invece del carcere le hanno dato cure psicologiche e misure alternative. Io non ho chiesto una pena più dura. Era una ragazzina. Spaventata. Sola. Quello che era stato fatto, era fatto.

Ma alla bambina serviva un nome. La madre aveva rinunciato subito ai diritti.

«Come vogliamo chiamarla?» mi ha chiesto l’assistente sociale.

«Perché lo chiede a me?»

«Lei l’ha salvata. Ha diritto di farle visita finché non troviamo una famiglia affidataria. Pensavo che magari volesse darle un nome.»

Ho pensato a quella corsa. Alla tempesta. Alla forza con cui quella piccola aveva lottato.

«Grazia,» ho detto. «Grazia Speranza Rinaldi.»

«Rinaldi? Il suo cognome?»

«Se lo è guadagnato. È passata attraverso l’inferno per arrivare qui. Per me è famiglia.»

Grazia è rimasta tre settimane in terapia intensiva. Io andavo tutti i giorni. Le infermiere si sono abituate al vecchio motociclista sulla poltrona a dondolo. Mi hanno insegnato a darle il biberon. A cambiarla. A tenerla in braccio nel modo giusto.

«Lei è portato,» mi ha detto una.

«Avevo una figlia, una volta. Tanto tempo fa.»

Non parlavo di mia figlia da anni. Morta a quattro anni per un incidente stradale. Mia moglie non si è mai ripresa. Due anni dopo si è tolta la vita. Da allora ero rimasto solo. Io, la moto e i fantasmi.

Ma Grazia non era un fantasma. Era viva. Calda. Tenace.

Il giorno in cui ha stretto il mio dito per la prima volta, ho capito che ero fregato.

«Signor Rinaldi,» mi ha detto l’assistente sociale alla terza settimana, «dobbiamo parlare dell’affidamento.»

«Che cosa c’è da parlare?»

«Grazia sta quasi bene per essere dimessa. Dobbiamo trovare una famiglia affidataria.»

«Ci penso io.»

Lei ha sorriso, pensando a una battuta. Poi ha visto che ero serio. «Sta scherzando.»

«No.»

«Ma lei ha sessantanove anni. È solo. Vive da solo.»

«Sono quello che le ha salvato la vita. Quello che viene qui ogni giorno. Quello che lei conosce.»

«Non è così semplice…»

Per me invece era semplicissimo. Quella bambina era stata buttata via. Io l’avevo trovata. L’avevo salvata. Questo aveva un significato. Doveva averlo.

La trafila per l’affido è stata un inferno. Controlli in casa. Carte. Colloqui. Referenze. Mi hanno messo davanti a ogni ostacolo possibile.

«È troppo vecchio.»

«Sono esperto.»

«Non ha una rete familiare.»

«Ho il mio motoclub. Quaranta fratelli. Le loro mogli. Tutti pronti ad aiutare.»

«Il suo stile di vita…»

«Il mio stile di vita le ha salvato la vita.»

La svolta è arrivata da dove non me l’aspettavo. Dal giovane carabiniere che mi aveva interrogato la prima notte.

«Quest’uomo ha guidato, nel mezzo di un temporale, con una neonata morente contro il petto,» ha detto alla commissione. «Se questo non è materiale da padre, non so cosa lo sia.»

L’approvazione è arrivata quando Grazia aveva cinque settimane. Affido temporaneo, con possibilità di adozione.

L’ho portata a casa nella mia piccola villetta. Era tutto pronto. Culla. Vestitini. Biberon. Le mogli dei ragazzi del motoclub avevano trasformato il mio rifugio da scapolo in una casa per una bambina.

La prima notte Grazia non dormiva. Piangeva sempre. Niente la calmava. Alla fine, distrutto, ho fatto l’unica cosa che mi è venuta in mente.

L’ho messa nel suo seggiolino, l’ho legato bene al mio petto, e sono andato in garage. Sono salito sulla moto. Ho acceso il motore. L’ho lasciato al minimo.

Col rumore profondo e la vibrazione, si è zittita quasi subito. Nel giro di due minuti dormiva.

«Sei proprio una bambina da moto,» le ho sussurrato.

Adesso Grazia ha tre anni. L’ho adottata ufficialmente l’anno scorso. C’è voluto tempo, avvocati, pazienza. Ma adesso è mia. Davvero mia.

È piccola per la sua età. Ha qualche ritardo nello sviluppo, legato al parto difficile e all’abbandono. Ma per me è perfetta.

Viene in moto con me. Seggiolino omologato. Casco rosa con il suo nome. Saluta tutti. Urla «Ciao!» a ogni persona che vede.

Anche il motoclub l’ha adottata. Una quarantina di zii. È la mascotte di ogni giro. Riconosce le moto dal rumore. Sa distinguere una moto dall’altra prima ancora di sapere tutti i colori.

«Quella è di zio Orso!» urla quando sente il suo bicilindrico.

La madre biologica ha chiesto di vederla l’anno scorso. Voleva sapere se stava bene.

Ci ho pensato a lungo. La rabbia lottava con la compassione. Aveva buttato via mia figlia. Ma era anche una ragazzina spaventata che aveva fatto una scelta terribile.

Ci siamo incontrati in un parco. Terreno neutro. Lei, ormai diciannovenne, tremava.

Quella giornata Grazia correva da tutti, come sempre. Senza paura. Senza timidezza. Quando è arrivata davanti alla madre biologica, si è fermata un attimo. L’ha guardata. Poi le ha allungato un fiorellino.

«Bello!» ha detto seria. Poi è corsa da me. «Papà! Spingi l’altalena!»

La ragazza è scoppiata a piangere. «È felice.»

«È amata.»

«Io… io sono così dispiaciuta. Per quello che ho fatto. Per averla buttata…»

«Basta. Quello che è successo è successo. Lei è viva. Tu sei viva. Questo è quello che conta adesso.»

«Le dirai la verità?»

«Quando sarà grande. Le dirò che è una combattente. Che ha superato qualcosa di orribile. Che non è stata buttata, è stata scelta.»

«Scelta?»

«Io l’ho scelta. Quella notte con la tempesta. Ho scelto di fermarmi. Di salvarla. Di amarla. Di essere suo padre. Questo conta.»

La ragazza è rimasta un’oretta. Adesso manda biglietti di compleanno a Grazia. Foto dell’università. Sta studiando per diventare ostetrica. Vuole aiutare le ragazze spaventate. Fare in modo che nessun bambino finisca mai più in un cassonetto.

Lo rispetto. La redenzione ha tante facce.

La settimana scorsa io e Grazia ci siamo fermati al distributore nuovo, costruito dove prima c’era la vecchia stazione abbandonata. Lei cantava l’alfabeto, sbagliando metà delle lettere ma felice.

«Papà, perché ci fermiamo qui?»

«È qui che ti ho trovata, piccola.»

«Trovata?»

È troppo piccola per sapere tutto. Ma un pezzetto di verità gliel’ho dato.

«Tre anni fa avevi bisogno di aiuto. E io passavo proprio di qui, proprio in quel momento. Così sono diventato il tuo papà.»

Ci ha pensato con tutta la serietà di cui è capace una bambina di tre anni.

«Meno male che passavi qui.»

«Già, meno male.»

«Ti voglio bene, papà.»

«Ti voglio bene anch’io, piccola guerriera.»

Lei ancora non sa tutta la storia. Il cassonetto. La tempesta. La corsa contro il tempo. Un giorno gliela racconterò. Quando sarà pronta.

Per ora sa solo la verità che conta:

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