La bambina muta di sei anni corse dritta contro il petto di un gigante pieno di tatuaggi nel corridoio dei detersivi, in quel grande supermercato alla periferia di Bologna, e iniziò a segnare con le mani così in fretta che le lacrime le cadevano sul collo della giacca.
Lui, che a prima vista sembrava il tipo da cui ti sposti istintivamente – rasato ai lati, barba folta, giubbotto di pelle nero con una grossa toppa con un casco da pompiere e una fiamma – si mise subito a segnare anche lui, con una naturalezza che stonava con l’aria minacciosa del suo corpo enorme.
Io ero a pochi metri, con un carrello mezzo vuoto. Mi sono fermato, come tutti gli altri.
La bambina – non poteva pesare più di venti chili – si aggrappava a quel gigante come se il mondo stesse crollando, le sue mani piccole muovevano i segni della Lingua dei Segni Italiana con disperazione.
All’improvviso il viso dell’uomo cambiò: dall’ansia alla pura, fredda rabbia. Si alzò in piedi di scatto, tenendo ancora la bambina ben stretta contro di sé, e cominciò a guardarsi intorno con occhi che non lasciavano spazio ai dubbi.
«Chi ha portato qui questa bambina?» tuonò, la voce che rimbombò tra gli scaffali. «Dove sono i suoi genitori?»
La bambina gli tirò il giubbotto, continuando a segnare con urgenza.
Lui abbassò lo sguardo, rispose con alcuni segni lenti e chiari… e il suo viso divenne ancora più scuro, come se qualcuno avesse spento la luce dentro di lui.
Fu in quel momento che capii che quella piccola non era corsa da lui a caso.
Aveva visto il suo giubbotto. Aveva riconosciuto le toppe. E sapeva qualcosa di quell’uomo che nessun altro, in quel supermercato, avrebbe potuto immaginare.
Qualcosa che stava per svelare il vero motivo per cui stava cercando aiuto proprio dalla persona che sembrava più pericolosa di tutte.
Io ero paralizzato, lo ammetto. Guardavo quella scena senza riuscire a muovermi. Il gigante – almeno un metro e novanta, spalle larghe come una porta, braccia tatuate fino ai polsi – stava conducendo una vera conversazione in LIS con quella bambina senza voce.
«Chiama il 112», mi disse, senza chiedere. Era un ordine.
«Subito. Di’ che qui c’è una bambina rapita. Grande supermercato sulla via Emilia, reparto detersivi.»
«Ma come fai a sapere…»
«Chiama!» ruggì, poi ammorbidì di nuovo la voce e segnò qualcosa alla bambina, che annuì vigorosamente.
Con le mani che tremavano tirai fuori il telefono. Nel frattempo lui la portò verso il banco informazioni. Due altri uomini, vestiti come lui con il casco da pompiere ricamato sulla schiena – chiaramente del suo gruppo – si mossero subito, creando una sorta di muro umano intorno a loro.
La bambina continuava a segnare, la sua storia che usciva tutta dalle mani.
Lui traduceva ad alta voce per chi non conosceva la LIS: per noi, per il direttore del negozio, per i clienti che si avvicinavano.
«Si chiama Lucia», disse piano. «È sorda. È stata portata via dalla sua scuola a Parma tre giorni fa.»
La sua voce era ferma, ma sotto si sentiva una furia trattenuta a fatica.
«Le persone che l’hanno presa non sanno che sa leggere le labbra. Li ha visti parlare in macchina, nel parcheggio. Hanno parlato di soldi. Cinquantamila euro. Un “cliente” da incontrare qui, tra meno di un’ora.»
Mi si gelò il sangue. Il direttore del supermercato diventò bianco come il banco dei latticini.
«Ma… com’è possibile che lei sia venuta proprio da te?» chiese una signora anziana, con le mani strette sul carrello.
L’uomo abbassò leggermente il giubbotto, mostrando una piccola toppa sotto il grande simbolo dei “Vecchi Pompieri” – così si chiamava il loro gruppo, lo avrei saputo dopo. La toppa era una mano viola stilizzata, con il palmo aperto.
«Insegno Lingua dei Segni all’istituto per sordi di Modena», spiegò. «Da quindici anni. Lucia ha riconosciuto il simbolo. Nella comunità dei sordi significa “persona sicura”.»
Questo gigante con l’aria da duro… era un insegnante.
Lucia gli tirò ancora il giubbotto e segnò qualcosa, guardando oltre le sue spalle.
Lui seguì il suo sguardo. Si irrigidì.
«Sono arrivati», tradusse.
«La donna con i capelli rossi e l’uomo con la camicia blu. Vicino alla farmacia.»
Tutti ci siamo voltati.
Una coppia dall’aria normalissima stava camminando verso di noi. I loro volti passarono dalla finta sorpresa all’allarme quando videro la folla, i tre ex pompieri con i giubbotti di pelle, e Lucia stretta in braccio al gigante.
«Lucia!» trillò la donna, con una dolcezza finta come la panna spray.
«Eccoti qui, amore! Vieni dalla mamma.»
Lucia affondò il viso nel petto dell’uomo, tremando tutta.
Gli altri due ex pompieri si mossero senza fretta, ma in modo molto deciso, posizionandosi vicino alle uscite.
La coppia cercò di mantenere un’aria tranquilla, continuando ad avanzare.
«È nostra figlia», disse l’uomo, cercando di sembrare autoritario. «Ha problemi comportamentali, scappa spesso. Vi ringraziamo per averla tenuta qui.»
«Davvero?» chiese il gigante, con una calma che faceva più paura di un urlo. «Allora saprete dirmi il suo cognome.»
I due si guardarono un attimo. «Lucia Martini», rispose la donna.
Lucia stava già segnando con rabbia. L’uomo la seguiva con gli occhi, annuendo.
«Si chiama Lucia Chen», tradusse. «I suoi genitori sono Davide ed Elisa Chen, di Parma. Il suo colore preferito è il viola.
Ha un gatto che si chiama Nebbia. E voi…» indicò la coppia con un dito enorme, «adesso rimanete esattamente dove siete finché non arrivano i carabinieri.»
L’uomo infilò una mano nella giacca. Successe tutto in pochi secondi.
I tre ex pompieri si mossero insieme, con i riflessi di chi è abituato alle emergenze. Uno gli bloccò il polso, l’altro gli fece perdere l’equilibrio con un movimento secco, il terzo gli tolse la giacca di dosso. L’uomo si ritrovò a terra, a pancia in giù, senza quasi capire come.
La donna provò a scappare, ma non riuscì a fare nemmeno cinque passi. Un altro volontario della “Vecchi Pompieri” – non so da dove fosse spuntato – le si piazzò davanti, le braccia incrociate, e lei rimbalzò quasi contro il suo petto.
«Per favore», iniziò a piangere. «Ci hanno solo pagato per trasportarla. Non sappiamo niente.»
«Sapevate abbastanza per portare via una bambina sorda dalla sua scuola», ringhiò il gigante.
Lucia segnò ancora, indicando la borsa della donna.
Lui tradusse: «Dice che lì dentro c’è il suo braccialetto medico. Quello con scritto che è sorda e con i numeri dei genitori.»
Le sirene si sentirono prima da lontano, poi sempre più vicine. Arrivarono diverse auto, luci blu che lampeggiavano attraverso le vetrate.
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