La colf accusata di rapire il figlio del miliardario: la verità proibita nascosta dietro quella finestra

La colf accusata di rapire il figlio del miliardario: la verità proibita nascosta dietro quella finestra

Il mio corpo si immobilizzò. Il panico, freddo e affilato, mi chiuse la gola.
Andrea Conti. Qui. Adesso.

Sentii i suoi passi pesanti e impazienti sulle scale di marmo. Non doveva essere lì. Le tate avevano detto domani.

«Dov’è?» La sua voce era un ringhio basso, che rimbombava nell’androne enorme. Era la voce di un uomo a cui nessuno aveva mai detto “no”.

Brancolai nel buio, la mano che sbatteva contro il metallo freddo della culla. Il piccolo Nico si mosse appena, le sue labbra minuscole fecero un piccolo verso.

«Sta dormendo, signor Andrea» sussurrò Tania, una delle tate, dal corridoio. Potevo sentire il tremito nella sua voce. «Stavamo solo… controllando.»

«C’è lei,» sibilò Chiara, l’altra. «La signora delle pulizie. Non possiamo… non stasera.»

Un filo di luce tagliò il pavimento della nursery quando la porta scricchiolò aprendosi. Mi appiattii contro il muro, dietro una giraffa di peluche grande come un bambino di dieci anni. Il cuore era un tamburo contro le costole, talmente forte che ero sicura potessero sentirlo.

L’ombra di Andrea entrò nella stanza prima di lui. «Chi c’è dentro?»

Chiusi gli occhi con forza. Non vedermi. Non vedermi.

«Solo la signora delle pulizie, signore» balbettò Tania, troppo in fretta. «Sta finendo.»

«Ho sentito qualcosa» scattò Andrea. Il suo sguardo spazzò la stanza, freddo e calcolatore. Si fermò sul manico del mio carrello delle pulizie, che avevo stupidamente lasciato nel corridoio. Gli occhi gli si strinsero.

Lui sapeva.

In quell’istante, la mia mente si fece silenziosa. La paura non sparì, ma si cristallizzò. Si trasformò in un unico pensiero spaventoso: questo bambino non può finire in mano sua.

Prima che facesse un altro passo, mi mossi.

Balzai da dietro la giraffa, presi Nico dalla culla in un unico gesto fluido e lo avvolsi nella sua copertina. I suoi occhi piccoli si spalancarono, confusi ma tranquilli, come se sentisse il gelo nell’aria.

«Ehi!» Andrea si lanciò in avanti, il volto che passava dal sospetto a una rabbia di ghiaccio.

Non persi tempo con la porta. Corsi verso la finestra. Secondo piano. Troppo in alto.

Afferrando la pesante sedia a dondolo imbottita, con un’ondata di adrenalina che non sapevo di avere, la scagliai contro il vetro.

Il vetro non si limitò a rompersi: esplose. Pioggia e vento irruppero nella stanza, una sinfonia caotica che si univa alle sirene che suonavano solo nella mia testa.

«È pazza!» urlò Chiara.

«Fermatela!» gridò Andrea. «Non fatela uscire!»

Mi arrampicai sul davanzale imbottito, stringendo Nico al petto. Il bordo era bagnato. Sotto di me, le siepi perfettamente curate sembravano denti scuri e appuntiti.

«Giulia! Fermati! Sei fuori di testa!» Andrea era proprio dietro di me. Sentii il calore della sua mano quando afferrò la copertina.

Non pensai. Semplicemente, lo feci.

Misi una gamba oltre il davanzale, coprii la testa di Nico con la mano e mi lasciai andare.

L’aria gelida mi strappò il respiro. Cademmo sulle siepi con il crepitio di rami che si rompevano e un colpo secco e doloroso. Le spine mi strapparono la giacca e le braccia, ma non mollai Nico. Atterrai pesantemente su un fianco, le ossa che vibrarono per l’impatto. Un dolore acuto, bianco, mi esplose nella caviglia.

Nico, scioccato dalla caduta, scoppiò a piangere.

«Shhh, amore, shhh, ci sono io» ansimai, cercando di rialzarmi. La caviglia urlava, ma la ignorai.

I fari del giardino si accesero all’improvviso, inondando il prato di una luce artificiale dura e crudele.

«È al cancello sul retro!» urlò una voce maschile. Sicurezza.

«Trovatela!» La voce di Andrea, piena di veleno, tagliò la notte. «Ha il bambino!»

Corsi.

Corsi scalza sotto la pioggia pungente, con la caviglia che cedeva, i polmoni in fiamme. Il bambino era un peso caldo e prezioso contro il petto. Ogni respiro bruciava. Non mi voltai. Non potevo.

Arrivai al cancello sul retro, armeggiai con la chiusura di ferro: era chiuso a chiave. Uno sguardo rapido, disperato. Il muro di mattoni era troppo alto. Ma a sinistra, dove probabilmente stavano lavorando i giardinieri, una sezione della recinzione in ferro battuto era piegata, lasciando uno spiraglio appena abbastanza largo per una persona.

Mi infilai, strappandomi la maglietta su una punta di metallo.

Le sirene d’allarme della villa urlavano alle mie spalle, colonna sonora del mio terrore. Sparii nelle strade scure e bagnate della periferia nord di Milano, senza sapere cosa fosse già in moto.

Mentre mi nascondevo dietro un cassonetto, due isolati più in là, ansimando e cercando di calmare un neonato che piangeva, il mio riflesso mi tradì nel vetro di un’auto parcheggiata. Una donna fradicia, tremante, con il fango sul viso e le braccia sanguinanti, che stringeva un bambino che non era suo.

Lo stesso bambino che il mondo, di lì a poco, avrebbe detto che avevo rapito.

Molto più indietro, invisibile a me, Andrea Conti stava in piedi sul balcone, la pioggia che gli incollava i capelli alla testa. Aveva il telefono all’orecchio.

«Sta scappando» sibilò nel cellulare. «Perfetto. Voglio la sua faccia su tutti i canali in dieci minuti. Chiama il commissario Riva. Digli che… che è instabile. Armata. Pericolosa. Facciamo in modo che la polizia sappia esattamente chi deve incolpare.»

Io ancora non lo sapevo. Non sapevo che la mia vita, la vita silenziosa e invisibile di Giulia Moretti, era finita.

Sapevo solo una cosa, una verità che nessun titolo avrebbe potuto cancellare: avevo appena salvato una vita innocente. E ora ero braccata per questo.

Le quarantotto ore successive furono un miscuglio confuso di pioggia e paura ancora più fredda.

Riuscii ad arrivare al primo mini-market aperto 24 ore su 24, trascinando la caviglia ad ogni passo. Zoppicando, percorsi i corridoi, prendendo pannolini, un biberon di plastica e una confezione di latte in polvere pronto all’uso. Il cassiere, un ragazzo stanco, mezzo addormentato, quasi non mi guardò. Prese solo le mie banconote stropicciate e bagnate — gli ultimi quaranta euro — e infilò la roba in una busta.

«Brutto temporale, eh» mormorò.

«Già» sussurrai, con la voce roca. Non riuscivo a guardarlo negli occhi. Mi sembrava di avere la scritta “RAPITRICE” stampata in fronte.

Non potevo tornare a casa. Mia madre. Oh Dio, mia madre. Avrebbero tenuto d’occhio anche lei. Non potevo andare dai carabinieri. La voce di Andrea mi rimbombava in testa: «Chiama Riva.» Aveva un poliziotto dalla sua parte.

Mi rimaneva una sola persona. Una possibilità quasi nulla. Un ricordo di sei mesi prima.

Stavo pulendo gli uffici della società di famiglia in centro. Una giovane avvocata, lucida in un modo diverso dagli uomini di casa Conti, stava discutendo con Andrea nel corridoio. Io svuotavo un cestino, invisibile come sempre.

«Questi trasferimenti sono immoral­i, Andrea» aveva detto lei, con voce bassa ma ferma. «Io non li firmo.»

«Lei lavora per questa famiglia, avvocata Rinaldi» aveva ghignato Andrea. «Farà quello che le si dice.»

«No» aveva risposto lei. «Non lo farò.»

L’avevano licenziata un’ora dopo.

Si chiamava Rebecca Rinaldi. Me lo ricordavo perché avevo dovuto svuotare il suo ufficio. Aveva lasciato un biglietto da visita sulla scrivania. In un momento di… non so cosa… me l’ero infilato in tasca.

Trovai un vecchio telefono a gettoni fuori da una lavanderia chiusa. Le dita erano intorpidite, tremavano così tanto che facevo fatica a comporre il numero. Nico gemeva, affamato e infreddolito.

Il telefono squillò tre volte.

«Rinaldi» rispose una voce assonnata, diffidente.

«La prego» singhiozzai, la parola mi uscì come un urlo rotto. «La prego, non riattacchi. Mi chiamo Giulia Moretti. Io… lavoravo nella villa dei Conti. Lei… lei ha provato ad aiutare. Io ero lì.»

Silenzio. Poi: «Giulia Moretti? La signora delle pulizie?»

«Sì! Stanno dicendo che… che ho rapito il bambino. Non è vero. Glielo giuro, non è vero.» Le parole uscivano a torrente, isteriche: le tate, il piano, la voce di Andrea. «Volevano fargli del male, lo stavano organizzando, li ho sentiti!»

«Giulia, rallenta» la voce di Rebecca ora era affilata, sveglissima. «Dove sei?»

«Non posso dirlo. Mi stanno cercando. La polizia… Andrea li conosce.»

Un’altra pausa. Potevo sentirla respirare. «La stazione della metro a Cadorna. Di fronte c’è un bar aperto tutta la notte, “Il Girasole”. Siediti nell’ultimo tavolo in fondo, vicino al bagno. Arriverò in mezz’ora. Non parlare con nessuno.»

La linea si spense.

Diedi da mangiare a Nico nel bagno lurido del bar, la schiena contro la porta. Era così piccolo, così fiducioso. Le sue dita minuscole si chiusero intorno alle mie mentre beveva, e un’ondata di amore protettivo così forte da togliermi il fiato mi travolse. Non avrei permesso a nessuno di fargli del male.

Quando Rebecca scivolò nel mio tavolo, sembrava essersi vestita in fretta. Jeans, una giacca e occhi che non si perdevano niente. Spinse un caffè verso di me.

«Sei uno straccio, Giulia» disse, ma senza cattiveria.

«Non l’ho fatto» sussurrai.

«Sto iniziando a crederti» rispose, abbassando lo sguardo verso il bambino addormentato tra le mie braccia. «Ho sempre saputo che Andrea era una serpe. Ma questo… questo è oltre.»

Tirò fuori un portatile. «Ok. Da capo. Raccontami tutto. Ogni parola che hai sentito.»

Per un’ora parlai. Lei scriveva, con il viso sempre più teso. «Tania Bianchi e Chiara De Luca. Assunte tre mesi fa. Entrambe hanno… debiti interessanti. Spariti una settimana dopo l’assunzione. Cancellati da una società anonima.» Le dita correvano sui tasti. «Una società che conosco. Un’altra delle strutture di Andrea.»

«È una prova?» chiesi, la voce tremante per una speranza che avevo paura di sentire.

«È un filo» disse. «Ci serve il maglione intero. Non possiamo andare dalle forze dell’ordine. Non ancora. Finché non abbiamo qualcosa che lui non possa seppellire con i suoi avvocati e le storie sulla “domestica instabile”.»

Mi guardò dritta. «Dobbiamo nasconderci. E dobbiamo lavorare in fretta.»

La settimana successiva fu un incubo fatto di pensioncine squallide, cellulari usa e getta e Wi-Fi di biblioteche comunali. Ci spostavamo ogni dodici ore. Rebecca era un fantasma, un’ombra digitale. Mi insegnò a entrare e uscire dagli edifici senza farsi notare, a pagare sempre in contanti, a guardare tutti come un potenziale pericolo.

Io mi occupavo di Nico. Lo cambiavo, lo nutrivo, gli canticchiavo per farlo dormire. Nelle ore tranquille e terrorizzate della notte, era il mio ancoraggio. L’unica cosa che mi sembrava reale.

Intanto, su ogni schermo, c’era la mia faccia. «LA RAPITRICE DI MILANO». «INSTABILE. PERICOLOSA.» Intervistavano i miei vicini. Disturbavano persino mia madre, finché Rebecca non fece una telefonata anonima minacciando una denuncia.

«Ti stanno dipingendo come un mostro» disse Rebecca, il viso illuminato dalla luce del portatile nella penombra della nostra stanza di pensione. «È la solita strategia. Distruggere la credibilità del testimone. Così tutto quello che dirà sembrerà una fantasia.»

«Stiamo perdendo» sussurrai, guardando Nico dormire in un cassetto vuoto che usavamo come culla.

«No» ribatté Rebecca, con gli occhi che le brillavano. «Non stiamo perdendo. Sono dentro. Sono nel suo server privato.»

Alzai la testa di scatto.

«Ci ho messo quattro giorni, ma quell’arrogante ha usato la stessa password di sempre. Sta prosciugando la società di famiglia da anni. Ma non è questa la parte migliore.»

Girò lo schermo verso di me. Una conversazione cancellata. Da Andrea, verso un numero non salvato.

Andrea: È fatto?
Sconosciuto: Non ancora. La donna delle pulizie era lì. Complicazioni.
Andrea: Complicazioni? È nessuno. Togliete di mezzo il bambino. Fate sembrare che sia stata lei. Un incidente. Una caduta.
Sconosciuto: È fatto. È scappata. Col bambino.
Andrea: …Perfetto. Ancora meglio. La domestica impazzisce, ruba l’erede. Attivate il piano per i media. Non durerà 24 ore.

Sentii il sangue gelarsi. Non solo voleva uccidere Nico. Voleva incastrare me per la sua morte.

«Lui… lui stava…»

«Sì» disse Rebecca, la voce dura. «E ora l’abbiamo in mano.» Chiuse di colpo il portatile e iniziò a fare la valigia. «Ci spostiamo. Subito. Portiamo tutto questo dall’unica persona che può fermarlo.»

«Dalla polizia?»

«No» disse Rebecca, infilando il portatile nello zaino. «Dall’unica persona che ha più potere di Andrea.»

«Chi?»

«Enrico Conti.»

«Enrico?» rimasi senza fiato. «È suo fratello! È lui che ha fatto mettere la mia faccia in TV!»

«È anche quello che Andrea vuole distruggere» spiegò Rebecca, chiudendo lo zaino. «La moglie di Enrico è morta dando alla luce Nico. Quel bambino è tutto quello che gli è rimasto. Andrea è il fratellastro, figlio del secondo matrimonio del padre, quello “meno importante”. Andrea è sempre stato invidioso. Ora vuole tagliare la linea di successione. Enrico pensa che una domestica pazza gli abbia rubato il figlio. Non sa che suo fratello ha cercato di farlo uccidere.»

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